Non per forza ma per Amore

Quando i miei alunni mi chiedono se devono per forza svolgere un compito, io rispondo sempre che non devono farlo “per forza” ma “per amore”! Così, dopo una bella risata, svolgere quel compito sarà tutta un’altra cosa, seppur noioso, pesante, difficile. «Per amore?» – chiede Giulia – «e come si può?». Non credo esistano altri atteggiamenti possibili e la vita stessa ce lo dice nell’ambito dei nostri affetti più cari: «C’è la pazienza dei genitori dinanzi alle mille domande dei figli che crescono; c’è la cura premurosa della mamma, della moglie, della nonna che sanno prevedere – incredibile ma vero – ogni esigenza prima che questa venga espressa; c’è la sopportazione paziente e reciproca di due innamorati che imparano a conoscersi o delle sofferenze che prima poi toccano tutti; c’è la speranza totale e totalizzante su cui ogni giovane fonda il presente e sogna il futuro».

È quello che canta Franco Battiato ne ‘La cura’: «Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.  Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza. I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi, la bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi. Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto.  Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono. Supererò le correnti gravitazionali,  lo spazio e la luce per non farti invecchiare. Ti salverò da ogni malinconia,  perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te… io sì, che avrò cura di te». Stefano, poi, interviene con convinzione: «Prof, la canzone è bella ma concretamente che fare? La scelta tra “forza” e “amore” non è indifferente per noi stessi e per chi ci circonda!». Rispondo che è vero, che non esiste a priori la scelta giusta, ma per evitare di dare risposte preconfezionate racconto una storia sul caffè: «Una volta c’era chi doveva preparare il caffè in famiglia: a chi tocca oggi? Bisognava stare attenti a preparare bene il dosaggio perché uscisse fuori il caffè. C’era la scelta della qualità giusta. C’era il rumore del caffè che saliva. C’era chi si scottava toccando la caffettiera? C’era da suddividere nelle diverse tazze. C’era il profumo che si spandeva in tutto l’ambiente. C’era il caffè pronto da gustare. C’era la caffettiera – ahimé – da pulire, ma questa è tutta un’altra storia!».

La nostra vita, invece, in parallelo, ci dice che è bello preparare il caffè, cioè è bello mettersi in gioco e scommettersi nelle relazioni con cuore libero, sincero, disponibile e gratuitamente. In questo senso ci provoca ironicamente anche Fabrizio De Andrè quando canta il ritornello «Ah che bell’ ‘o café pure in carcere ‘o sanno fà co’ a ricetta ch’a Ciccirinella compagno di cella ci ha dato mammà», quasi a dire che dietro questa bevanda c’è un rito e dietro al rito ci sono le persone, per quanto – come afferma la Volpe al Piccolo Principe – il rito “è una cosa da tempo dimenticata”. Dunque riscoprire il rito “è ciò che fa un giorno – secondo la Volpe – diverso dagli altri giorni” e ci dice che oggi tocca a me fare il caffè, così come tocca a me prendermi cura, chinarmi per sollevare chi è più piccolo o è nella sofferenza, tocca a me e non ad un altro, tocca a me e, se non lo faccio io, non lo faranno altri probabilmente.

Ci dice che il caffè va messo con misura nella caffettiera, cioè richiede equilibrio e sapienza nelle scelte, ma non tiepidezza nelle decisioni e nei consigli. Ci dice che la qualità della miscela è fondamentale, cioè che una relazione che faccia crescere è costruita spendendo bene il tempo non occupandolo con qualcosa da fare finché non passi, rendendosi creativi e fantasiosi, mettendo al centro l’altro e non se stessi. Ci dice che sentire il rumore aiuta a capire quando il caffè è pronto, cioè che “sentire” è “ascoltare” ogni battito del cuore, “ascoltare” il detto e il non detto, che “ascoltare” è saper fare silenzio al momento giusto e parlare senza riempire l’altro di parole. Ci dice che ci si scotta pure, cioè che spesso non tutto va bene, ci arrabbiamo, siamo stufi, ma possiamo sempre ricominciare, ricominciare per primi, chiedere scusa e ripartire meglio di prima. Ci dice che il caffè va condiviso, cioè “io sono per te e tu per me” e allo stesso tempo che non si cresce da soli ma in una comunità. Ci dice del profumo per tutta la casa, cioè il profumo della gioia, della serenità, dell’accoglienza, l’aria buona dell’entusiasmo e del sano protagonismo che ci fanno sentire bene, creando familiarità dovunque, familiarità coinvolgente. Ci dice che il caffè è pronto ed è buono, così come la nostra vita deve essere buona e disponibile al dono per gli altri».

Poi concludo dicendo loro: «Io scelgo il dolce aroma del caffè e voi?».

 

Marco Pappalardo