Memorie dal sottosuolo biblico

da Il Sole 24 Ore – 20 giugno 2021 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinal Gianfranco Ravasi racconta del volume Archeologia biblica di Erich H. Cline, in particolar modo della parte dedicata a un viaggio negli scavi condotti nelle aree citate dalle Sacre Scritture.

Agatha Christie sotto la tenda nella steppa desolata della Mesoposcritamia stava forse elaborando la trama di uno dei suoi romanzi dominati dal detective Hercule Poirot o dalla sagace Miss Marple. Fuori, sotto un sole implacabile suo marito, l’archeologo Max Mallowan, era invece alle prese con una stratificazione o con l’inventario dei frammenti di ceramica affiorati da quel suolo arido. Abbiamo voluto liberamente ricreare una scena che accosta due discipline non così estranee tra loro, come si può sospettare. Si provi, infatti, a sfogliare un volumetto lapidariamente intitolato Archeologia biblica, opera dell’americano Erich H. Cline, e si corra all’ultimo capitolo, il dodicesimo.

Il titolo non lascia spazio a dubbi: «Eccezionali ritrovamenti o abili falsificazioni?». Ed ecco subito un racconto simile a un giallo in tre atti, segnato da colpi di scena, riguardante tre reperti saliti alla ribalta negli ultimi anni che hanno offuscato la mente anche di alcuni studiosi, hanno seguito vie avventurose, mobilitato risorse finanziarie ingenti, e alla fine sono approdati sotto la mannaia della critica rigorosa che ne ha polverizzato il valore, relegandoli nei depositi dei materiali scartati. Per la cronaca, si tratta di una minuscola melagrana d’avorio di 5 cm con un’iscrizione fasulla, costata al pur occhiuto Israel Museum ben 550mila dollari. C’è, poi, l’ossario con l’iscrizione «Giacomo figlio di Giuseppe, fratello di Gesù», trionfalmente esposto a Toronto e furtivamente fatto sparire quando si dimostrò che l’incisione era moderna. Infine la tavoletta del re Ioas con ben 15 righe in paleo-ebraico, la cui vicenda col relativo flop («falso piuttosto scadente») lasciamo seguire al lettore.

Ora, se è vero che allignano in questo settore vari Indiana Jones e si aggirano giornalisti a caccia di ipotetici scoop, è ben più vero che una legione di studiosi seri con acribia e pazienza scavano, catalogano, verificano e affidano a rapporti documentati le loro ricerche. Il saggio di Cline, nei capitoli precedenti, è infatti un affascinante viaggio nelle campagne di scavo condotte nei territori menzionati nella Bibbia. La tentazione era forte: mettersi alla ricerca di conferme dei dati biblici, talora usando le Sacre Scritture quasi come una «Guide bleu», ma anche scoraggiarsi rimandando quelle pagine solo alla teologia. In realtà, era necessario muoversi su un crinale delicato, ricordando sempre che la rivelazione biblica è, sì, storica e quindi si muove entro concrete coordinate spazio-temporali e materiali, ma ha una finalità religiosa e la sua è appunto un’ermeneutica teologica di eventi e dati.

Le tappe che Cline impone al suo itinerario spesso sono scandite dalle vicende del nostro tempo: si pensi solo a prima e dopo la Guerra dei Sei giorni (1967) col generale archeologo Y. Yadin, oppure all’evoluzione della pratica archeologica dagli scavi guidati dalle intuizioni, cognizioni e investigazioni di maestri geniali (come W. Albright, I. Finkelstein, J. Garstang, K. Kenyon, W. Petrie, R. de Vaux), fino all’attuale introduzione di magnetometri, georadar, misuratori di resistività elettrica e termoluminescenza, fotografie satellitari e così via. Il panorama che alla fine viene schiuso davanti a noi da Cline è, però, quello che sommuove le pagine bibliche: da Noè e il diluvio (con la gaffe di un’altra moglie, quella dell’archeologo di Ur, L. Woolley) a Giosuè, Salomone, Nabucodonosor, nomi ben noti ai lettori della Bibbia.

Ma c’è di mezzo anche Qumran coi suoi manoscritti che hanno generato a loro volta una sorta di romanzo poliziesco e persino una battaglia accademica con morti, feriti e vincitori. Oppure i rotoli-amuleti d’argento scoperti nei pressi di Gerusalemme, o la barca del lago di Tiberiade contemporanea dei pescatori discepoli di Gesù, o la tomba di Caifa, o il sorprendente mosaico di Meghiddo, per non parlare degli imponenti edifici erodiani e del nome di Pilato ritrovato durante uno scavo italiano su una lapide del teatro di Cesarea Marittima. L’elenco potrebbe continuare offrendo rivelazioni inedite per il pubblico comune e intrecci tra attestazioni documentarie e leggende, sempre «narrate» in modo attraente, senza però indulgere al sensazionale che anima invece uno stuolo di ciarlatani sedicenti archeologi e, purtroppo, pure di giornalisti.

La novità editoriale di Cline può essere accompagnata da un reprint di un classico, il ritratto storico, sociale, politico, religioso, urbano e persino economico di Gerusalemme, disegnato da uno dei maggiori neotestamentaristi del secolo scorso, Joachim Jeremias (1900-1979), salito sulle cattedre delle più importanti università tedesche, da Berlino a Greisfwald, da Lipsia a Gottinga. Contro la tendenza, inaugurata dal razionalismo sette-ottocentesco e rinverdita ai nostri giorni da epigoni come Fernando Bermejo-Rubio (L’invenzione di Gesù di Nazaret, Bollati Boringhieri), tendente a dissolvere ogni dato storico dei Vangeli mettendo in dialettica storia e teologia (considerata «finzione»), Jeremias procede con tutta la sua grande attrezzatura di filologo, storico ed esegeta isolando un contesto globale che è riflesso e certamente rielaborato nei testi sacri, senza indulgere all’arroccamento rigido apologetico o, al contrario, al machete devastante della demitizzazione.