Martiri e giusti tra le Nazioni

da “Il Sole 24 Ore” – 21 gennaio 2018 – di Gianfranco Ravasi.

Non è necessario essere claustrofobici per provare una sensazione di terrore a rimanere per quattro ore in un loculo mortuario della cripta di un santuario, con una lastra di marmo a bloccare l’apertura. Eppure fu solo così, murati vivi, che quattro ebrei si salvarono dalla caccia di una squadraccia di fascisti repubblichini di Salò che stavano conducendo una pulizia etnica a imitazione dei loro brutali “maestri” e alleati tedeschi. Si riesce, allora, a decifrare il titolo simbolico Quattro ore nelle tenebre di un testo di per sé storico e documentario che si legge, però, come fosse un romanzo, tanto emozionanti sono gli eventi rievocati. Al centro di questo racconto, oltre agli ebrei salvati, c’è un sacerdote, don Luigi Mazzarello (1885-1959), il cui ritratto e la cui avventura umana e spirituale è narrata da un docente dell’ateneo pavese che porta il suo stesso cognome pur non avendo vincoli di sangue diretti, Paolo Mazzarello, che ha la cattedra di storia della medicina. «Prete strano, irregolare, bizzarro e anticonformista, ma capace di aiutare a rischio della vita, perché era riuscito a vedere il proprio destino nella sorte degli altri», nonostante le differenze confessionali. Questi “altri” erano Lisa Vita Finzi ed Enrico Levi, gli zii del futuro famoso autore di Se questo è un uomo, cioè Primo Levi, e una coppia di loro amici, i Soria. All’irrompere delle leggi razziali, prima, e all’onda minacciosa dell’esercito tedesco in ritirata e dei famigerati residuati fascisti di Salò, poi, essi devono abbandonare Genova e la stessa campagna, ove avevano trovato un primo rifugio, per puntare su un piccolo santuario, Nostra Signora delle Grazie della Rocchetta, che torreggiava sul «dirupo a cuneo disegnato da due corsi d’acqua…, posto in continuità naturale con la cresta di roccia nerastra su cui era stato edificato».

Siamo a Lerma, un piccolo comune in provincia di Alessandria, ai piedi del crinale appenninico ligure-piemontese, nella diocesi di Acqui Terme. Là era approdato, dopo una variegata esperienza umana e pastorale, don Luigi, che era stato a lungo cappellano di bordo sui bastimenti che attraversavano l’Atlantico e giungevano – attraverso il canale di Panama – fino in Cile. Aveva, così, stabilito una rete di conoscenze soprattutto con le folle di migranti, tanto da essere destinato successivamente alla Missione cattolica di Ginevra per gli italiani. Figura elegante, poliglotta, spirito libero, alla fine era stato relegato in quel santuarietto locale ove, però, si era subito fatto amare dai cabanè, i contadini di quell’area rurale.

La sua vicenda, però, s’intreccia – come dicevamo – con la storia tormentata e drammatica di quegli anni che l’autore ricostruisce e pone a fondale della sua memoria narrativa. Siamo nella fase più cupa che segue lo sbandamento conseguente all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando soprattutto l’Italia settentrionale precipita nella guerra civile tra partigiani e repubblichini. In queste pagine è memorabile la rievocazione della strage fascista della località Benedicta, che in realtà, con l’eccidio di 147 partigiani e le relative deportazioni dei giovani locali, può giustamente essere ribattezzata da Mazzarello “Maledicta”. Don Luigi non esita a incunearsi in questi grovigli di sangue, sempre preoccupato di salvare vite e di sostenere gli oppressi, rischiando in prima persona, come nel caso del «tragico giovedì santo» del 6 aprile 1944.

Egli attraversa queste bufere mortali con la sua passionalità che non esita a imprecare e a reagire: «Era un religioso, ma era stato anche un contadino, prima di diventare raffinato cappellano di bordo, uomo di mondo e infine prete di campagna alla Rocchetta». Don Luigi è un fratello ideale dei vari “preti di strada” e – per l’analogo contesto storico di quegli anni – è il parallelo di don Raimondo Viale, il prete giusto di Nuto Revelli (1998). A don Mazzarello si possono mettere in bocca le stesse parole di don Viale (oppure quelle di un don Mazzolari e don Milani): «Ci sono preti che si comportano come altoparlanti di Cristo non solo con le parole ma anche coi fatti. Altri invece hanno scelto la vita quieta, il tran tran: nessun nemico. Io dico: se un prete non ha nemici, non è un prete. Gesù crea una rottura tale che lo chiamano “segno di contraddizione”». Don Luigi Mazzarello il 12 aprile 2012 è stato proclamato dallo Yad Vashem di Gerusalemme «Giusto tra le nazioni».

Egli è, comunque, riuscito a varcare indenne l’orizzonte bellico e oppressivo e a chiudere la sua vita in un’Italia ormai democratica. Ben diversa è stata la sorte dell’altra figura che accostiamo a don Luigi in un dittico sacerdotale. Siamo nell’aprile 1951 e sull’allora Cecoslovacchia incombe il sudario di un regime comunista spietato. Un ancor giovane prete salesiano (era nato nel 1915 in un villaggio slovacco, noto per i suoi vigneti) viene arrestato dalla polizia con altri sacerdoti e chierici che, inoltrandosi per boschi, monti e valli, cercavano di migrare all’estero e raggiungere l’Alto Adige e, infine, nientemeno che Torino come meta agognata di libertà religiosa e politica. Il suo nome era Titus Zeman. Alle spalle aveva una formazione culturale come chimico e docente di materie scientifiche, ma anche sportiva e pedagogica.

Ma sulla sua biografia si stende l’ombra tenebrosa della persecuzione: per 18 anni, fino alla morte avvenuta nei primi giorni del 1969, la sua vita era stata un calvario. Condannato per alto tradimento e spionaggio, torturato, sottoposto a vessazioni psichiche e morali, destinato anche a essere “cavia sperimentale”, considerato un pericoloso nemico dello Stato e «uomo destinato all’eliminazione», costretto a una falsa auto-accusa, egli attraversa le varie carceri repressive, ridotto a una larva umana come emerge dalle foto segnaletiche della prigione di Ilava. Ma il suo sguardo è sempre fermo e sereno, come lo è la sua fede, mentre supera le varie tappe della sua nazione con gli squarci di luce, come con la «Primavera di Praga», subito spenti dal ripristino forzato del regime ad opera dei carri armati russi.

Alla fine, ormai stremato e prossimo alla morte, viene amnistiato in extremis e, dopo un mese, muore in ospedale e i suoi funerali, l’11 gennaio 1969, si trasformano in una celebrazione corale di affetto, vanamente osteggiata dalle restrizioni pubbliche e dalla presenza di spie governative. Pochi mesi dopo ironicamente un processo di revisione lo assolverà con formula piena e la Chiesa lo annovererà tra i beati lo scorso 30 settembre. L’intera trama di questa esistenza – che rivela la figura di un vero “martire” sia nel senso etimologico di “testimone” ma anche in quello popolare di vittima per un ideale e per la fede – è stata ricostruita da una studiosa, Ludovica Maria Zanet, non solo nella traiettoria biografica di don Titus, ma anche nella ricomposizione di un quadro storico ed ecclesiale che per molti lettori è ancora fiammeggiante nella memoria e nello spirito.