21 Feb L’Intercultura: un itinerario del pensiero per l’uomo e la società (II parte)
Enrico Riparelli ha studiato teologia, filosofia e lettere a Padova e Roma. Ha conseguito un dottorato in filosofia e uno in teologia. Attualmente è vicedirettore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Padova e docente di Interculturalità e Religione presso lo stesso istituto. È esperto di teologia interculturale e di teologia del dialogo. Tra le sue pubblicazioni: Il volto del Cristo dualista. Da Marcione ai catari, Peter Lang, 2008; I mille volti di Cristo. Religioni ed eresie dinanzi a Gesù di Nazareth, Edizioni Messaggero, 2010; L’altro possibile. Interculturalità e religioni nella società plurale (con G. Manzato e V. Bortolin), Edizioni Messaggero, 2013.
Quanto è importante sottolineare che ci sono delle divergenze, sia in campo filosofico che teologico, nella considerazione del dialogo interculturale?
È utile chiarire che nel mio saggio non mi sono messo alla ricerca di un minimo comune denominatore che portasse a conciliazione definitiva i nostri autori, come se l’identità fosse raggiungibile eclissando le differenze e queste ultime rappresentassero solamente la traccia di una alterità relativa pur sempre superabile. Mi sono piuttosto sforzato di mettere in comunicazione il loro pensiero traendo frutto sia dalle possibili sovrapposizioni rinvenute nelle loro originali intuizioni sia dalle incrinature riscontrabili ai margini dei rispettivi discorsi. L’esplicito intento del mio saggio consiste nel seguire alcuni percorsi esemplari capaci di entrare in dialogo reciproco senza velleità di fusione.
Qual è stata la scoperta per lei più significativa in questo “itinerario di studio”?
Anche alla luce di questa ricerca mi sono sempre più convinto che una riflessione interculturale meno trionfale, più disincantata nei confronti di un suo possibile uso retorico e maggiormente consapevole delle proprie coordinate contestuali è dotata di grande valore, individuabile tanto nella funzione utopica di immaginare e creare nuove sovrapposizioni tra diverse costellazioni culturali, quanto nella funzione critica e autocritica corrispondente alla denuncia della sempre possibile ideologizzazione di un dialogo interculturale omogeneizzante. L’invito conseguente è perciò di mettere in atto una riflessione interculturale chiamata a essere anche altra da se stessa perché sempre tesa a un movimento di trasgressione del proprio discorso, prestando attenzione – avvertiva Panikkar – a non sostantivare l’interculturalità come un qualcosa che abbia tutte le risposte.
Passiamo al concetto di cultura, la cui stessa definizione è oggi problematica. Gli antropologi non sembrano essere d’accordo in merito…
In effetti una schiera sempre più nutrita di antropologi esprime oggigiorno i suoi dubbi circa la significatività della categoria di cultura revocando in dubbio la duplice base di tale concetto, ossia la concentrazione su ciò che è proprio (identità monolitica) e la resistenza verso ciò che è estraneo (differenza incomponibile), caratteristiche che non a caso si possono riscontrare anche in una certa nozione di identità. Di conseguenza questi studiosi sottolineano le notevoli lacune della categoria di cultura – divenuta autoevidente e mostratasi perfettamente in linea con le rappresentazioni moderne di un soggetto e di una identità non divisibili – per metterne in luce la natura «finzionale» che spicca ancor più nell’attuale epoca di globalizzazione, in cui si assiste all’indebolimento del passato modello di coincidenza tra cultura e territorio. L’esempio più illustre di tale difficoltà nel definire con precisione la nozione di cultura lo dobbiamo alla celebre ricerca pubblicata già nel 1952 dagli studiosi Clyde Kluckhohn e Alfred L. Kroeber in cui sono passate in rassegna ben 164 definizioni di cultura.
>> Versione integrale dell’intervista
di Gabriele Palasciano