Lavoro: a muso duro

Pare di sentirla al mattino, nel rumore dei passi sul pavimento freddo, negli sguardi che scambiamo con noi stessi di fronte allo specchio, in quel sospiro prima di aprire la porta di casa e uscire. Pesante, sulle spalle, a svuotare la bocca dello stomaco e a riempire la testa di pensieri. È lì, non la puoi ignorare perché fa uscire dalle labbra parole timide, insicure e spinge gli occhi verso il basso: la frustrazione.

Questa parola piomba nelle vite di tantissimi giovani che sfidano il mondo del lavoro. Competizione sfrenata, contratti precari e nessuna arma a disposizione se non l’irriducibile voglia di farcela, di uscire dal baco, di non temere più quella domanda così banale, che squarcia il sottile velo di sicurezza precostituita, argine all’ignoto: “Come va il lavoro?”. Spesso va male, se non malissimo perché ancora in troppi un lavoro non lo hanno e quando lo hanno sono pagati poco, costretti alla povertà, alla paura del domani e al vuoto dell’oggi.

Siamo cresciuti con un adagio rassicurante: “studia e vedrai che ce la farai”. Il tempo però lo ha tradito, rendendo questa frase un mito disvelato che non appartiene più alla realtà. Anche chi studia in Italia non ce la fa. Secondo Eurostat il nostro Paese è all’ultimo posto per occupazione di diplomati e laureati. Una tragedia non solo per ciò che abbiamo davanti ma perché questi dati hanno nomi, cognomi, a volte siamo noi, in affanno alla ricerca di un impiego dignitosamente retribuito. Ma sempre più spesso, e soprattutto all’inizio, si fa fatica a trovare lavoro e quando lo si trova il paradosso vuole che diventi totalizzante. In ufficio, davanti al computer, a casa, a cena con gli amici, mentre siamo al volante o mentre corriamo al parco. Vecchia cattiva abitudine che grazie alle nuove tecnologie è diventata il fragile e ingombrante pilastro della cultura del lavoro moderna: non si stacca mai. L’ufficio è in tasca, a distanza di notifica e di conseguenza non c’è più un tempo di inizio e di fine. Si lavora sempre e ovunque. Questa rottura del confine tra vita privata e lavoro sta rendendo le nostre esistenze più incomplete, insinuando un senso di colpa perverso quando ci dedichiamo ad altro, alle nostre passioni, ai nostri cari o addirittura anche solo quando pensiamo di farlo.

Siamo una generazione che abita un mondo sollecitato da emozioni instabili, conflitti e promesse di sviluppo. Ma nel complesso arrabattarsi della vita dobbiamo ricostruire speranza per il cambiamento che deve necessariamente partire dal lavoro, dimensione prima dell’individuo e ragione di esistenza di una comunità. Una fiducia a testa bassa, ostinata, a muso duro. Una speranza nuova, per scrollarci di dosso quella frustrazione e tornare a immaginare un futuro in cui credere, un futuro in cui rialzare lo sguardo, insieme.

 

Alessandro Pancalli

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