05 Ago L’altro mondo
Negli ultimi mesi il panorama carcerario italiano è stato oggetto delle attenzioni mediatiche, prima per le rivolte poi per le scarcerazioni.
Tra l’8 e il 9 marzo una serie di proteste si sono diffuse in diversi penitenziari nazionali, causando addirittura a 13 morti, intere sezioni distrutte e assalti alle infermerie. La causa va ricercata sicuramente nella situazione di panico generata dalla diffusione del Coronavirus, che ha ovviamente imposto il blocco dei colloqui, ma anche nella condizione in cui riversano le carceri italiane.
Dal XVI Rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia – “Il carcere al tempo del Coronavirus” – è emerso che il tasso di contagio in carcere era (ed è) significativamente più alto rispetto a quello della società libera. Per una serie di motivi, tra cui: in solo 59 strutture – delle 98 visitate da Antigone nel corso del 2019 – è garantita la presenza di un medico 24 ore su 24; in 25, le celle non rispettano il criterio dei tre metri quadri per detenuto; in 45, le celle non hanno acqua calda per lavarsi; in 52 (più della metà), le celle sono prive di doccia e i detenuti possono usare solo quelle comuni; in 8, alcune celle hanno il water a vista nella stanza, invece che in un ambiente separato; in 29, l’accesso alla luce del giorno e di conseguenza all’aria è ridotto o compromesso da schermature e finestre.
Non va dimenticato tra l’altro che, all’inizio della pandemia, il tasso di affollamento effettivo dei penitenziari italiani era pari a 130,4%. All’incirca 15mila persone erano recluse oltre i posti letto disponibili. A metà maggio 2020 il tasso è sceso al 112,2% grazie in parte al decreto Cura Italia per le detenzioni domiciliari concesse – 3.282, tendenzialmente riguardanti persone condannate per reati non gravi con meno di 18 mesi da scontare o detenuti anziani con condizioni di salute precarie – in parte al calo degli ingressi generato dal lockdown, che è riuscito a paralizzare perfino reati e arresti.
Che la pandemia sia servita anche per valutare una riforma della situazione carceraria? In effetti più di qualche questione andrebbe ripensata e adattata ai tempi che corrono.
In primis, bisognerebbe valutare ed approfondire la lunghezza delle pene inflitte, perché nonostante l’Italia passi come il Paese dalle pene miti, in realtà mette in atto pene molto più lunghe della media europea. Un dato che riguarda soprattutto le condanne per reati di droga, per i quali è in carcere il 32% dei detenuti. La questione risulta poi ancora più urgente se si pensa che comunque il carcere costa tanto, in questo 2020 ben tre miliardi di euro, 134,5 al giorno per ciascun detenuto.
Ma in questo tempo di pandemia, la new entry principale nei penitenziari è stata la tecnologia. Ai detenuti è stato concesso l’utilizzo dello smartphone (non personale) e di Skype per interagire a distanza con i propri cari. Perché se negli ultimi 20 anni la società libera ha vissuto uno sviluppo inarrestabile dal punto di vista tecnologico, di contro nel carcere tutto è rimasto uguale, fermo a quella sola telefonata a settimana di 10 minuti. Questa norma, introdotta negli anni ’70, non aveva intento punitivo, rientrava semplicemente nelle abitudini consuete di ognuno dato che all’epoca si trattava di un’operazione costosa. Oggi invece risulta come un provvedimento completamente slegato dalla realtà e tra l’altro dallo scopo discutibile. Perché coltivare il contatto con la propria famiglia così diventa difficile e il problema non andrebbe sottovalutato se si pensa che per uno scarcerato, senza casa né lavoro, la famiglia è non solo la risorsa principale, ma soprattutto l’unica per ricominciare.