La parola predicata sia vissuta

da Il Sole 24 Ore – 9 ottobre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone una sorta di guida per la predicazione dello straordinario uomo di Chiesa Dietrich Bonhoeffer.

«Un buon sermone evangelico dev’essere come quando si offre a un bambino una bella mela rossa o quando si porge un bicchiere d’acqua fresca a un assetato e gli si chiede: lo vuoi? Così dovremmo parlare delle questioni della nostra fede, in modo tale che le mani si dispieghino più velocemente del nostro poterle riempire». In realtà, se facciamo passare i volti dei fedeli durante le riprese televisive delle Messe nel momento dell’omelia, gli sguardi se non sono spenti, certamente non anelano a quella parola che risuona nel tempio.

A suggerire un diverso esito attraverso un annuncio incisivo è uno straordinario uomo di Chiesa come Dietrich Bonhoeffer che ha suggellato il suo ministero di pastore protestante col martirio il 9 aprile 1945, impiccato su ordine diretto di Hitler che stava ormai lui stesso per rantolare verso la fine che sarebbe avvenuta per suicidio tre settimane dopo, il 30 aprile. Di questo testimone della fede cristiana proponiamo ora proprio un suo breve corso di omiletica, una sorta di guida per la predicazione, tenuta nel seminario clandestino di Finkenwalde in diversi semestri tra il 1935 e il 1939 e destinata ai futuri pastori.

Le pagine rivelano uno stile didattico simile quasi ad appunti, anche perché si tratta di una redazione elaborata dagli studenti che assistevano al corso. Non è nostro compito ricomporre la struttura teorica di queste pagine, spesso striate di interrogativi, di allusioni e persino di provocazioni, tenendo conto che la predicazione è il cuore del culto protestante. Alcune intuizioni valgono, però, non solo per gli attori ufficiali ma anche per gli stessi uditori. Tanto per evocare qualche spunto, molto suggestivo è il monito che colpisce non solo il pastore: «Nessuno può commentare la Bibbia dal pulpito senza praticarla sul suo tavolo di lavoro e nella preghiera».

Per questa scissione le omelie meritano talora la famosa staffilata di Cristo: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Matteo 23,3). Da tale assunto derivano alcuni corollari, come l’equilibrio tra i due poli della fedeltà oggettiva al testo sacro ma anche l’autenticità del soggetto che lo proclama e commenta perché «la parola di Dio vuole essere detta da creature umane e non da un’istituzione». Rilevanti – sempre in questa linea – sono altri due polarismi, quello della liturgia con la sua efficacia sacramentale e quello dell’attualizzazione che eviti un messaggio che veleggia sulle teste dei fedeli in geometrie teologiche astratte.

Ne deriva la funzione capitale del linguaggio che dev’essere vincolato anche in questo caso a un contrappunto: da un lato, l’aderenza alla nuova comunicazione che circola nella società con le sue variabili e con grammatiche spesso inedite rispetto al passato; d’altro lato, la necessaria tipicità ieratica che impedisce funambolismi e modalità pubblicitarie. Impresa ardua, quindi, è quella della «Parola predicata» che, come ironizzava Carlo Bo in un suo articolo, dovrebbe essere «tormento dei fedeli» perché ferisce le coscienze e non perché costringe a sbirciare di sottecchi l’orologio.

Naturalmente è indispensabile anche da parte degli uditori praticanti, avere una preliminare «introduzione» alle Scritture. Incessanti sono le pubblicazioni che vengono prodotte al riguardo. Vorremmo segnalare ora quella approntata da un biblista di grande qualità, Giuseppe Pulcinelli. In un volumetto egli ha cristallizzato quasi in una sorta di agenda le questioni fondamentali e le nozioni preliminari di accesso ai testi sacri, offrendone le chiavi necessarie per non rimanere spaesati.

Infatti, prima ancora di usare un commento a un libro o testo biblico ci si imbatte in soggetti tematici antecedenti come «ispirazione», «canone», critica testuale, ermeneutica e soprattutto si incrocia un lessico specialistico, considerato dall’esegeta che scrive il commento come se fosse evidente e scontato. Provi il lettore, ad esempio, a partire dall’appendice del volume di Pulcinelli ove lo studioso elenca e spiega 34 «parole più comuni»: si incroceranno termini abbastanza noti, ma anche categorie come «kénosi, kérygma, koinè, parenesi, parusía, tetragramma», concetti specifici che preparano un’altra serie di «parole ancor più tecniche». Si offrono poi le categorie «per l’analisi letteraria di un testo» e, infine, persino un «glossarietto di esegesi rabbinica».

L’originalità del sussidio approntato da Pulcinelli è, però, nel corpus del volume, ove i soggetti sopra evocati sono ricreati in una forma didattica godibile eppur raffinata. Non siamo, quindi, costretti a seguire piste piuttosto aride costellate di puri e semplici dati e informazioni, tipiche dei manuali introduttivi, ma si è condotti verso squarci con vere e proprie finestre. Esse si aprono su un florilegio di interrogativi e risposte: perché alcuni testi biblici risultano oscuri e di difficile interpretazione? Quali sono le sfide attuali? Ispirazione dell’autore o del testo (entra in scena persino Caravaggio)? Che cos’è la «verità» biblica? Si può giustificare la violenza nella Bibbia? Come nacque il Canone delle Scritture? Quali sono i principi e i metodi ermeneutici? Ma non mancano neppure le sorprese di Qumran, gli Esseni, le traduzioni e persino «l’atteggiamento più adatto alla lettura delle Scritture».