Ritratto di Erasmo da Rotterdam

La fede salda dell’umanista

da Il Sole 24 Ore – 6 ottobre 2019 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi ci racconta dell’epistola che Erasmo da Rotterdam indirizzò nel 1518 all’abate benedettino Paolo Volz, affrontando e spiegando il concetto di umanesimo cristiano.

Entrambi erano agostiniani, erano dotati di una genialità assoluta e auspicavano una riforma della Chiesa. Eppure erano così distanti da essere schierati su versanti radicalmente opposti. E non certo per la sola diversità temperamentale, come si sarebbe in seguito dichiarato nell’aforisma latino Ubi Erasmus innuit, illic Luther irruit, alla raffinatezza del primo si contrapponeva, infatti, l’irruenza dell’altro. Si è, così, visto a quale coppia intellettuale e spirituale stiamo alludendo. Basterebbe solo evocare il loro scontro attorno a uno snodo rovente teologico-antropologico icasticamente fissato già nel titolo dei due saggi antitetici, il De libero arbitrio erasmiano e il De servo arbitrio luterano. Anche in morte il celebre riformatore non esiterà a dedicare al suo avversario (siamo nel 1536) un gelido epitaffio lapidario: «Quanto fece avanzare la filologia, Erasmo tanto nocque al Vangelo».

È di quest’ultimo che ora ci interessiamo, anche sulla scia degli straordinari medaglioni a lui riservati da un grande interprete come Carlo Ossola (penso al suo Erasmo nel notturno d’Europa, pubblicato nel 2015 da Vita e Pensiero) o al ritratto abbozzato dallo scrittore austriaco Stefan Zweig (Erasmo, nella versione italiana del 2015 presso Castelvecchi). Lo scritto che è stato da poco pubblicato a cura di Luigi Berzano – a cui si deve anche un’ottima premessa – è una chicca finora relegata solo nelle edizioni critiche o rare: si tratta di un’epistola indirizzata nel 1518 (più o meno un anno dopo la leggendaria affissione delle reali “95 tesi” luterane alla porta della chiesa del castello di Wittenberg) a un abate benedettino, Paolo Volz.

Questa lettera fu poi allegata come introduzione alla nuova edizione di un importante trattato erasmiano, l’Enchiridion militis christiani. Come dice il titolo, quest’opera voleva essere un “manuale” (in greco appunto enchiridion) per la formazione di un amico militare (miles), ma in senso più lato di ogni cristiano che doveva combattere la battaglia spirituale della sua fede contro il male, l’errore, la violenza, la degenerazione intellettuale e morale. In questa prospettiva la lettera può ben essere rubricata, come ha fatto il curatore Berzano, sotto la titolatura Umanesimo cristiano, quella visione di cui Erasmo fu artefice principe. I soggetti approfonditi nelle pagine di questa epistola-introduzione – che ora è offerta in versione col testo latino a fronte (e chi lo sa leggere godrà ancora una volta il linguaggio raffinato di un vero umanista come lo era l’autore dell’Elogio della follia) – appartengono infatti al panorama ideale del pensatore.

Cercando di delineare questa sorta di arcobaleno tematico ci si può ancora una volta accorgere della distanza con la riflessione luterana. Tentiamo solo qualche esempio, partendo proprio dall’epigrafe obituaria polemica del Riformatore: egli, infatti, sottolineava il blasfemo primato assegnato da Erasmo alla filologia. In realtà, noi ora siamo tutti convinti, cattolici e protestanti, che se non si fissa propedeuticamente il testo sacro, non si può avere una corretta fioritura dell’esegesi, dell’ermeneutica e della teologia. Come è noto, nel 1516 Erasmo aveva curato l’edizione critica del Nuovo Testamento greco. In questo aveva travalicato in anticipo anche il cattolicesimo ufficiale del Concilio di Trento che, invece, avrà come referente la traduzione latina della Vulgata.

Sul fondamento della Scrittura si innalza l’architettura della philosophia Christi che non può essere affidata alla massa sterminata delle speculazioni della Scolastica. Scrive Erasmo: «Al vivere bene Cristo ha voluto che vi fosse facile adito, non per mezzo degli intricatissimi labirinti delle dispute, ma per mezzo di una fede sincera, di una carità non simulata, compagna della speranza». All’eccesso degli arabeschi teologici egli opponeva la sapienza evangelica che non elide il contributo umanistico della ragione ma lo esalta e lo apre a orizzonti trascendenti. Ironica è la sua comparazione di una certa elucubrazione filosofico-teologica alla farmacopea che «mescola e rimescola ricreando continuamente prodotti vecchi da quelli nuovi, nuovi da quelli vecchi, uno da molti e molti da uno».

In questo arcobaleno affiora anche una singolare concezione della Chiesa secondo uno schema a “tre cerchi” le cui gradazioni non sono qualitative perché tutti sono necessari per la pienezza della mappa della comunità cristiana: il sacerdozio, il governo politico, il popolo. Tutti riflettono la grandezza del corpo di Cristo ma anche le sue ferite. E a proposito di quest’ultime, Erasmo marca la necessità della riforma ecclesiale, a partire naturalmente dal primo cerchio: feroce è, ad esempio, la critica ai monaci e ai frati invitati a non coprirsi con la corazza delle loro regole che celano la corruzione e la violazione dei precetti evangelici. Ma anche i politici e i fedeli devono spegnere l’eccitazione che li spinge a quell’«omicidio collettivo» che è la guerra, anche quella contro i Turchi che assediavano Vienna nel 1529: in caso di vittoria ai superstiti musulmani, infatti, che cosa sarebbe capace di offrire per la loro conversione una Chiesa avvinghiata a privilegi e a una rete di speculazioni teologiche, di «spinose e intricate sottigliezze sugli imminenti, sulla formalità delle cose, sulle quiddità, sulle relazioni»?

Tanti altri spunti si intuiscono nelle pagine dell’epistola-introduzione, spunti che avranno il loro sviluppo pieno e articolato nell’Enchiridion. Il fremito spirituale e culturale di Erasmo è, comunque, sempre temperato dalla sua pacatezza e da un equilibrio che Lutero non possedeva e che, anzi, disdegnava. Bastino solo queste righe della sezione finale: «In tutti i generi di vita sia questo il desiderio comune: che ognuno, nei propri limiti, risplenda per la causa di Cristo, ben fisso davanti a tutti, e che vicendevolmente ci si esorti e anche ci si aiuti, né provando invidia per coloro che ci precedono né disturbando i deboli che non possono ancora eguagliarci. Infine, quando qualcuno ha fatto ciò che ha potuto…, in conformità con Cristo dica, e lo dica dall’animo, lo dica per sé e non solo per gli altri: Sono un servo inutile: ho fatto ciò che dovevo fare».