La centralità dell’uomo nella sofferenza

da Il Sole 24 Ore – 15 novembre 2020 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi racconta la testimonianza di Michele La Pusata, malato di SLA, e ripercorre anche i pensieri del Cardinale Carlo Maria Martini.

«Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta un’eternità per cancellarlo». Così scriveva Dino Buzzati in un suo racconto. Su quelle lastre tutti abbiamo inciso una nostra testimonianza e non c’è cultura o religione che non si sia confrontata con questo macigno che opprime il cuore o le stesse membra. Non per nulla, uno dei grandi capolavori teologico-poetici, il libro biblico di Giobbe, si aggroviglia e arroventa attorno al nodo della sofferenza, non tanto per scioglierlo quanto piuttosto per mostrare che Dio stesso non può uscirne indenne. Non si dimentichi, infatti, che la genesi antica della stessa teologia fu proprio la teodicea, cioè lo sforzo affannoso di far coesistere Dio e il male.

A rappacificare questi due attori non basta, perciò, né il teorema della retribuzione (il binomio meccanico delitto-castigo), né l’etica della paideia greca formalizzata in un altro binomio assonante pathématamathémata, le sofferenze sono insegnamenti. Non che queste e tante altre interpretazioni non contengano un germe di verità, ma esse non riescono a zittire l’urlo registrato, ad esempio, nei Salmi ove l’orante biblico aggredisce Dio reiterando ben quattro volte un interrogativo lancinante: «Fino a quando, Signore? Per sempre?» (13,2). È, quindi, naturale che la letteratura, la filosofia, la teologia abbiano sentito l’obbligo di accostarsi al letto del malato o al fianco del disperato, talora dispensando «decotti di malva», come impietosamente Giobbe liquida le argomentazioni degli instancabili suoi amici teologi.

Bisogna, però, riconoscere che altre volte quella vicinanza ha saputo creare calore e sciogliere qualche grumo di male; ha potuto decifrare alcune righe di quella «metafora» dell’esistenza umana che è la malattia, per usare il noto titolo del testo autobiografico di Susan Sontag; ha riacceso il lucignolo della speranza. È ciò che testimoniano i due volumi che estraiamo dall’insonne testimonianza dei sofferenti e dei loro compagni di viaggio in questo cupo orizzonte, un «tunnel», come ha scelto di titolare Abraham Yehoshua il suo romanzo sull’esperienza di un malato di Alzheimer. «Attenti, però: la luce non è in fondo al tunnel, come solitamente si dice, ma in ogni passo che compiamo».

A usare questa immagine è Marco Garzonio, noto scrittore e giornalista, nel suo saggio-prefazione a un libro suggestivo, scritto a più mani e curato da un medico cattedratico, Giorgio Lambertenghi Deliliers, un testo che è una sorta di rievocazione di una figura indimenticata, il card. Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. Il profilo del ritratto è, però, un po’ inatteso, come reitera il sottotitolo: «medicina, sanità, ricerca e bioetica nel pensiero» del cardinale. Non possiamo ora delineare il contributo dei vari interventi e delle appendici ove risuona anche la voce di Martini attraverso un articolo apparso proprio nelle pagine della «Domenica» del Sole 24 Ore il 21 gennaio 2007. Ed è significativo che allora essa si faceva sentire proprio su un territorio accidentato e di frontiera, come quello dell’ormai emblematico «caso Welby» (così come, altrove, sulle cellule staminali).

Sì, perché Martini non ha mai esitato a inerpicarsi anche su questi crinali taglienti, convinto che è necessario affacciarsi su entrambi i versanti, «pensando in modo aperto», come suggeriva al curatore del volume, quando era quasi alle soglie della morte e il suo stesso corpo diventava – come era accaduto anche a papa Giovanni Paolo II – un emblema vivente del tema, essendo colpito dal Parkinson. Dalla molteplicità delle riflessioni presenti in queste pagine allineiamo soltanto alcuni spunti che sono simili ad altrettanti crocevia. Pensiamo alla centralità della persona umana e alla qualità relazionale per cui «l’irrinunciabile principio di autonomia è relativo, appunto relazionale, e non riducibile solo a oggetto di una decisione individuale e autoreferenziale», come scrive nel suo saggio il gesuita Carlo Casalone. Qui entra in scena anche la non contrazione delle persone alla sola vita biologica e al caso clinico: la raccolta degli articoli si intitola appunto «curare la persona», e illuminante potrebbe essere la paronomasia dei due verbi inglesi to cure, «curare», e to care, «prendersi cura».

Nel magistero martiniano altre note significative interpellano la dimensione socio-politica, così come la scienza e la tecnologia: la famosa «Cattedra dei non credenti», voluta dall’arcivescovo, nel 1998 fu dedicata proprio agli «orizzonti e ai limiti della scienza», nella convinzione che essa non possa snobbare le interpellanze dell’etica, mentre la fede non può erigere un muro protettivo che ignori la complessità dei fenomeni. Infine, in questa esemplificazione non mancano ovviamente i rimandi del Martini biblista alla Parola di Dio, né il «fissare negli occhi la morte per ritrovare la vita». Sorprendente è, poi, l’invito rivolto al medico a «prescrivere se stesso come farmaco», un’affermazione paradossale che merita di essere approfondita, nella convinzione che sia necessaria non solo una competenza professionale ma anche una vocazione per essere non solo un chimico ma un vero medico nel senso pieno del termine (tra l’altro, il latino medeor è alla base di un termine italiano così spirituale come «meditare»).

E ora lasciamo la parola a loro, ai veri abitatori del pianeta tenebroso della sofferenza. In realtà, quella che proponiamo non è una voce e neppure uno scritto in senso stretto. Siamo, infatti, davanti alla testimonianza di un malato di Sla che ha elaborato le sue pagine col puntatore ottico, impressionante strumento tecnologico che riesce a tradurre in parole gli impercettibili movimenti oculari del paziente. È arduo presentare un simile libro, sbocciato dal profondo di una coscienza e di un’intelligenza vivissime incapsulate in un corpo bloccato dalla neurodegenerazione. Lo fa molto bene un giudice della nostra massima istanza giuridica, Luca Antonini, che così narra il suo incontro con questo particolare autore: «Ho conosciuto Michele La Pusata nel documentarmi sulle condizioni dei malati affetti da patologie inguaribili, quando la Corte costituzionale si trovò a decidere sul cosiddetto caso Cappato, ovvero sull’ordinanza di rimessione con cui la Corte d’Assise di Milano ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice Penale» (tutti ricordano l’aiuto al suicidio del dj Fabo in Svizzera).

Il giudice e il malato avevano, così, intrecciato un sorprendente dialogo: il professor Antonini fu conquistato dai primi capitoli della narrazione autobiografica di Michele, letti assieme alla moglie Stella vicino al letto del paziente nel suo paese siciliano di Barrafranca. Parlavamo di sorpresa: una simile sensazione sarà vera anche per il lettore di questo libro veramente unico perché l’autore descrive senza pietismi il suo stato drammatico, ma sa anche spruzzare di sorrisi il racconto, lo fa fiorire a ogni fine capitolo in poesia, lo costella di aneddoti gustosi, lo allarga persino con rimandi e applicazioni bibliche (acuto è, ad esempio, il contrappunto tra una norma del Levitico e il cieco nato giovanneo), lo ammanta di un dettato stilisticamente realistico e raffinato al tempo stesso, lo movimenta con una trama deliziosa di dialoghi.

La vicenda di Michele che dura ormai da dodici anni è approdata alla fissità della paralisi, all’alimentazione per sonda gastrica e al respiro attraverso il ventilatore. Eppure la sua fede, l’amore per la moglie e i figli, il desiderio di vita, la serenità coraggiosa sono intatti e superano di molto lo stato fisico e interiore di tanti «normodotati». Il particolare ascolto che richiede la sua voce muta e le parole scritte da quell’occhio mobile saranno, perciò, un’esperienza e una riflessione veramente uniche, non retoriche, non consolatorie, non omiletiche, come accade spesso a chi vuole interpretare il male altrui senza viverlo. Tra le tante pagine che sarei tentato di citare, suggerisco solo di seguire l’avvio simbolico del capitolo intitolato «Una crepa da cui entra luce» perché «la Sla si potrebbe paragonare all’azione di quelle piantine dal fiore giallo che spuntano come per magia nel bel mezzo dell’asfalto…».