Marziani
elusivi

Una delle teorie sull’origine della vita conosciuta come abiogenesi, spiega che essa ebbe i suoi inizi con l’assemblaggio di molecole autoreplicanti che si sarebbero sviluppate grazie alle condizioni ideali contenute in un brodo primordiale (cfr. la sintesi spontanea degli aminoacidi nel famoso esperimento di Miller e Urey del 1952). A partire da queste molecole, si sarebbero organizzati dei coacervati (così li chiamò il biochimico russo Aleksander Oparin) che hanno creato forme di vita cellullare prima autotrofe – ossia derivanti direttamente dall’ambiente – e poi eterotrofe – nate divorando altre forme di vita -, sempre più organizzate (i procarioti diventarono eucarioti proteggendo il loro patrimonio genetico), sempre più complesse (da unicellulari a pluricellulari).

Giusta o sbagliata che sia, questa ipotesi ha un limite come tutte le altre tesi scientifiche sull’origine della vita poiché si basa su una sola osservazione, quella della evoluzione della specie osservabile sul pianeta Terra. Per verificarla, sarebbe utile ottenere informazioni sull’evoluzione di forme di vita (sempre che ce ne siano) su altri pianeti. Usando modelli come la Drake Equation, si stima che solo nella Via Lattea ci siano 500 miliardi di pianeti e, se anche solo uno su milione avesse la possibilità di generare la vita, vi potrebbero essere migliaia di ecosistemi unicamente nella nostra galassia. Data per buona questa stima statistica e considerato che vi è stato un tempo sufficiente per altre forme di vita avanzate di segnalare la loro presenza, il fatto che nessuna prova di queste esistenze sia stata raccolta ha creato una dicotomia conosciuta come il “Paradosso di Fermi” – che per primo la stigmatizzò con la frase «So, where is everybody?» – che recita che sebbene altre forme di vita extraterrestre siano probabilmente esistite (e esitano ancora), entrare in contatto con loro non è stato (e forse non sarà mai) possibile.

Alcuni ritengono però che il Paradosso di Fermi si debba non tanto a delle difficoltà di osservazione (distanze grandissime, per esempio) ma a un limite intrinseco all’evoluzione: alcuni passaggi dell’evoluzione della vita sarebbero più difficile di altri perché richiederebbero il concorre simultaneo di tanti fattori statisticamente insormontabili. Questa teoria è conosciuta come quella dei Great Filters: non è del tutto chiaro quali siano i filtri difficili da sorpassare ma il punto è che l’evoluzione della vita non sarebbe rappresentabile da una linea in pendenza costante, piuttosto da una “funzione gradino” ossia una scala in cui alcuni gradini sarebbero molto più difficili di altri da superare.

Non essendo attualmente disponibili indagini sperimentali è lecito chiedersi, a livello scientifico, quanti “gradini” sono stati necessari per arrivare all’homo sapiens? E domandarsi, a livello filosofico, cosa sarebbe peggio: che non fossero mai emerse forme di vita intelligente al di fuori della Terra o che lo siano state ma che la specie umana non potrà venirne conoscenza? Parrebbe che agli umani spettino ancora tanti “anni di solitudine” con conseguente angst esistenziale poiché, come segnalava Gabriel García Márquez, “È impossibile non finire per essere come gli altri, credendo che uno sia”.