25 Nov Intervento di Glauco Giostra a “Pena e Speranza”
Dopo le stimolanti considerazioni del Ministro in ordine al clima culturalmente poco propizio per le pur sacrosante riforme in tema di giustizia, scendo sul tema specifico di questo incontro: “Pena e Speranza”. A quest’ultima, lo ricordava il Cardinale Ravasi, ha dedicato bellissime parole Papa Francesco durante il Giubileo dei Carcerati. Ha detto: “una cosa è ciò che meritiamo per il male compiuto, altra cosa è, invece, il respiro della speranza, che non può essere soffocato da niente e da nessuno”.
Impossibile aggiungere alcunché a questa solenne semplicità con cui il Papa ha espresso il suo pensiero; l’unica cosa che posso fare, è scendere sul piano del “diritto positivo”, per vedere se la speranza ha cittadinanza anche nel nostro sistema giuridico, costituzionale in particolare.
La speranza in senso religioso e etico, di cui ci ha parlato il Pontefice, infatti, è qualcosa che ha a che fare con una fiduciosa aspettativa, con una fede nella misericordia e nella clemenza di Dio e degli uomini: la confidente attesa è il contrario di un diritto e non pretende oneri comportamentali da parte di chi speranza vuole nutrire. Io intendo affermare, invece, che nel nostro sistema costituzionale c’è un diritto alla speranza, cioè il diritto a che la rivisitazione critica del proprio operato e il comportamento di attiva partecipazione al processo di reinserimento sociale non restino ininfluenti sulla durata e sulla qualità della pena. Un diritto che nel dibattito in argomento trova molti riconoscimenti “labiali”, ma che puntualmente incontra non poche resistenze “attuative”, talvolta dovute anche a fraintendimenti terminologici.
In nessun luogo come in questo, le parole devono essere usate in modo non ambiguo, per far sì che le opzioni politiche dipendano da scelte di valore e non da travisamenti lessicali (si pensi ai concetti di certezza della pena, rieducazione, clemenza, dignità, sicurezza sociale). In nessun luogo come in questo le scelte di valore, una volta operate, non devono restar parole. Per quel che è possibile in pochi minuti, dunque, vorrei tentare una breve ecologia terminologica e concettuale, in modo da depurare il confronto sul tema almeno dalle più ricorrenti ambiguità.
Poiché per l’art. 27 comma 3 Cost. la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, non può non esserne individualizzata l’esecuzione in base alla volontà e alla capacità del soggetto di cogliere le opportunità di reinserimento sociale che l’ordinamento gli offre.
Secondo uno slogan del nostro quotidiano parlare di giustizia, in tal modo non vi sarebbe più “certezza della pena”, con tutto l’implicito portato di insicurezza sociale che un simile ragionare comporta. Quasi che certezza della pena equivalesse a fissità e immutabilità della stessa e che fletterne l’esecuzione in ragione dell’evoluzione comportamentale del condannato significasse consegnare la risposta sanzionatoria dello Stato ad una ingovernabile aleatorietà. Eppure nessuno parla di incertezza della pena con riguardo al momento della sua irrogazione, nonostante in base al codice penale il giudice, nel determinare l’entità della sanzione, debba tener conto della condotta post delictum dell’imputato. Perché non dovrebbe essere possibile tener conto, in fase esecutiva, del comportamento post poenam del condannato? Più corretto sarebbe dunque, parlare di pena certa ed individualizzabile, in base ai presupposti della legge e alla condotta del condannato.
Non è meno necessario sgombrare il campo da un altro luogo comune tanto pernicioso, quanto privo di ogni fondamento: “più carceri, più sicurezza”. Noi sappiamo – perché rigorosi studi statistici lo hanno anche di recente confermato – che chi esce meritatamente prima, ridelinque molto meno; dunque, è necessario ribaltare i termini di una simile, diffusa equazione.
Sgombrato il campo da questi ed altri demagogici slogan, si devono positivamente individuare quali siano le precondizioni e le implicazioni di un principio rieducativo che non voglia rimanere enunciazione cartacea.
In estrema sintesi. Qualsiasi trattamento degradante che offenda la dignità della persona, qualsiasi trattamento che non porti il condannato a poter e a saper scegliere, pregiudica la rieducazione e la funzione costituzionale della pena. Il tempo della pena deve offrire al condannato opportunità per un ritrovamento di sé e di un proprio ruolo sociale; non deve essere una clessidra senza sabbia.
Nessuna situazione soggettiva e nessun tipo di reato dovrebbe, di per sé, costituire motivo di esclusione dalle opportunità di recupero sociale. Nessuna misura alternativa dovrebbe mai dipendere dal solo titolo di reato. Neppure al condannato all’ergastolo dovrebbe essere negata la speranza, intesa come possibilità – se meritata – di non terminare la vita in carcere.
C’è un altro aspetto su cui soffermare l’attenzione. L’art 27 comma 3 Cost. andrebbe coordinato con l‘art 3, comma 2 Cost. Non basta offrire opportunità di riabilitazione e di reinserimento sociale, ma bisogna far in modo che siano di fatto concretamente fruibili. È compito (e interesse) dello Stato rimuovere qualsiasi ostacolo, economico, sociale, linguistico, culturale che, limitando di fatto le opportunità di risocializzazione, impedisca alla pena di svolgere la funzione che la Costituzione le assegna.
Infine, una doverosa precisazione.
Puntare sulla risocializzazione inclusiva, cioè attuare davvero la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla pena, richiede un impegno notevole da parte di tutte le componenti sociali, comporta inevitabili rischi, in non pochi casi esprime una tensione ideale che lascia indifferenti i suoi potenziali beneficiari. Bisogna quindi sapere che non è una scelta politica a costo zero, in nessun senso. Ma si deve anche sapere che se le pene dovessero non tendere alla rieducazione del condannato gli oneri economici e sociali sarebbero ben maggiori, i pericoli molto più gravi e frequenti, positive risorse per la società languirebbero inutilmente in galera, nuclei familiari che potrebbero positivamente ricomporsi resterebbero lacerati, a loro volta terreno di cultura di emarginazione, stigmatizzazione e devianza. Lungi dall’essere espressione di “indulgenzialismo”, dunque, il riconoscimento di un diritto alla speranza è il lungimirante investimento politico di una società che non rinuncia a profondere ogni sforzo per l’inclusione di chi la sappia meritare. Perché la società che dà una concreta speranza di riscatto ai suoi membri si dà una concreta possibilità di riscatto.