Il nome di Dio: parola che uccide o silenzio sottile?

“Parole violente, frantumano il silenzio, irrompono nel mio piccolo mondo”, è l’attacco di un famoso brano dei Depeche Mode, ‘Enjoy the silence’. “Apprezza il silenzio”, canta Dave Gahan, perché “le parole fanno solo male … sono superficiali … insensate …”. Qui non ci troviamo semplicemente di fronte al chiacchierìo diffuso, all’uso caotico – e perciò potenzialmente pericoloso – della parola. No, siamo davanti ad una parola che “penetra dentro”, che vuole definire il nostro mondo interiore, la nostra essenza. Non sapendolo fare. O facendo(lo) male. In tal senso, Italo Calvino scriverà nel romanzo ‘Palomar’: “In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni e giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di mordersi la lingua tre volte prima di fare qualsiasi affermazione. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no, sta zitto. Di fatto passa settimane e mesi interi in silenzio”. E restando in ambito letterario, come non pensare alla novella di Pirandello intitolata ‘Il treno ha fischiato’? Il protagonista Belluca, “circoscritto” e “definito”, oltre che in famiglia, nel suo luogo di lavoro, una notte, nel “silenzio profondo”, sente un treno fischiare e riscopre la vita, ribellandosi al ruolo di “bestia bendata”, ma finendo per essere internato in un “ospizio dei matti” – nuovamente definito, dai medici, vittima di “alienazione mentale”. Tanto può essere potente la capacità definitoria (e violenta) della parola. Solo un vicino di casa, l’unico in grado di fare “silenzio”, un silenzio “pieno di dolore”, lo comprenderà…

– Ma professore! Lo stesso capita a Sirius Black! – esclamò una volta uno studente. In effetti, nel terzo libro della saga di Harry Potter, troviamo imprigionato per sempre ad Azkaban un personaggio, Sirius, discendente da una famiglia, i Black, di maghi purosangue sostenitori di ‘Voldemort’. Egli è da tutti bollato come il traditore dei genitori di Harry, i suoi cari amici d’infanzia uccisi da ‘Colui-che-non-deve-essere-nominato’, e come il presunto assassino di Peter Minus e di dodici babbani. – Ed ‘Edward mani di forbice’, non è simile prof.? – soggiunse una compagna di classe. Anche questo personaggio partorito dalla fantasia cinematografica di Tim Burton subisce un destino analogo. Viene creato in un castello isolato da uno scienziato che muore abbandonandolo incompiuto, ma una volta condotto in città da una donna che lo ‘adotta’, dapprima verrà utilizzato (più che amato) per le doti delle sue mani di forbice, e poi sarà accusato di alcune colpe mai avute. A differenza di Sirius, che dopo la fuga dalla prigione e la morte per mano di Bellatrix verrà riabilitato dal Ministero della Magia, Edward sarà costretto invece a tornare nel suo castello, vittima della maldicenza generalizzata.

In tal senso, è folgorante la poesia di Eugenio Montale che apre la raccolta Ossi di seppia (1925):

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Il poeta rifiuta ogni sapere umanistico e scientifico che squadri e marchi a fuoco persone e mondi, proprio perché la sicumera con cui lo si è fatto in passato, rimuovendo ciò che è informe, polveroso ed oscuro nell’uomo, ha prodotto solo rovine. Il poeta può dunque acconsentire solo ad una poesia balbettante che proceda per via negationis, attraverso ciò che è imperfetto ed inaridito…

Ma questa tentazione di voler definire, ed in modo violento, il prossimo, è vissuta innanzitutto nei confronti di Dio da due personaggi centrali nell’Ebraismo: Elia (1Re 19,9-13) e Mosè (Es 3,11-15). Entrambi, in un momento particolare della loro vita, si trovano in una situazione drammatica, di persecuzione ed oppressione. E’ dunque comprensibile che, dal punto di vista umano, in questo loro deserto si rivolgano a Dio chiedendogli, più o meno consapevolmente, di apparire e definirsi come un dio potente, in grado di distruggere i nemici. Dio, però, si rifiuta, ed in modo umoristico ed affettuoso, risponde loro di essere il – o meglio di stare nel – silenzio: nella voce di silenzio sottile, che è quella dei migranti (come Abramo) e dei piccoli secondogeniti (come Isacco e Giacobbe, figure di Abele).

Quanto questo punto sia politicamente decisivo anche ai giorni nostri, lo dimostrano due casi solo apparentemente opposti. Nel primo – siamo in Malaysia – è in discussione la possibilità da parte della minoranza non musulmana (soprattutto cristiana) di pronunciare pubblicamente il nome di Dio nell’unico modo linguisticamente disponibile: Allah. Nel secondo caso – a metà strada tra Tel Aviv e Gerusalemme – ammiriamo, all’interno della comunità ‘Nevé Shalom’/‘Waahat-as-Salaam’ fondata da Bruno Hussùr per la crescita e l’educazione comune di palestinesi ed israeliani, la costruzione di una ‘Casa del silenzio’ come luogo di preghiera e meditazione aperto a tutti. In entrambi, è in gioco la necessità di comprendere chenessuno può farsi padrone del nome di Dio”…

Ecco perché nella tradizione ebraica il nome (l’essenza) di Dio – e dell’Uomo (sua creatura) – non è pronunciabile. Non solo, e forse non tanto, perché è Sacro, ma piuttosto – come ricordano Scholem, Levinas, Neher – poiché altrimenti rischieremmo di definirlo, etichettarlo, classificarlo, catalogarlo, inquadrarlo, ‘sistemarlo’; trasformandoci noi in Dio – ormai ridotto ad un idolo – ed assurgendo, nei confronti degli altri, ad una sorta di Superuomo che ha molto poco, però, dell’eroe salvatore del mondo. Come scrisse Agostino: “Si comprehendis non est deus” (Sermo 52, 16: PL 38, 360). Se Lo comprendi, allora non è Dio…

sergioventura@cortiledeigentili.com