Eros e Agape si fondono in Beatrice

da Il Sole 24 Ore – 12 settembre 2021 – di Gianfranco Ravasi.
Continuano le celebrazioni per l’anniversario dantesco, e in questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi narra come nella donna di Dante avvenga il transito dal fascino erotico all’amore spirituale che la rende un simbolo della Chiesa.

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre di settecento anni fa si spegneva a 56 anni e pochi mesi a Ravenna Dante Alighieri. Colui che aveva celebrato i massimi teologi del suo tempo come Tommaso d’Aquino, Bonaventura o Bernardo e che rivelava nei suoi versi una straordinaria attrezzatura filosofico-teologica, non poteva non stimolare anche i maggiori teologi del Novecento. Così Romano Guardini (1885-1968) componeva una serie di Studi su Dante che la Morcelliana traduceva già nel 1967. Curioso era il suo rimando autobiografico che coinvolgeva uno dei critici eminenti di allora, l’autore della celebre Mimesis: «Un giorno mi si parlò del libro di Erich Auerbach. Già il titolo era eccitante: Dante poeta del mondo terreno. Ma il suo contenuto fu ancora superiore all’aspettativa. Dante vi era designato come il poeta cristiano nel senso più profondo». E il famoso teologo tedesco lo spiegava sulla base del tema centrale cristologico dell’Incarnazione, prendendo spunto dal «laico» Auerbach.

Nel settimo centenario dantesco che stiamo celebrando la Jaca Book ha pensato di riportare sulla ribalta un altro gigante della teologia novecentesca, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988). Lo ha fatto stralciando dall’imponente cattedrale sistematica del suo capolavoro, i sette tomi di Gloria. Per un’estetica teologica (1961-69), un saggio intitolato Dante e la Divina Commedia, appartenente al terzo volume («Stili laicali») purtroppo con uno svarione nella quarta di copertina ove si assegna a san Bonaventura l’inno orante finale alla Vergine Madre che in realtà è intonato da san Bernardo. È, comunque, arduo riassumere il percorso proposto dal teologo di Lucerna e «il lungo studio e ’l grande amore» – per usare l’espressione che il poeta indirizzava a Virgilio (Inferno I, 83) – da lui dedicato non solo alla Commedia, ma anche al Convivio e alla Vita Nuova.

Egli identifica innanzitutto le «vie vergini» (che, con un’altra gaffe clamorosa dell’editore diventano «le mie vergini» nei titoletti del capitolo!) intraprese dal poeta con scelte originali. Infatti, «al centro dell’opera di Dante sta la sua personalità, in estrema antitesi a Tommaso d’Aquino dove la personalità è fatta intenzionalmente del tutto scomparire… È il primato dell’esistenza personale concreta sulla considerazione essenzialistica del mondo che era propria della Scolastica». Tra queste vie nuove aperte dal poeta, von Balthasar assegna un rilievo all’eros e all’agape che hanno in Beatrice il loro vessillo ma con una precisazione: in lei si compie il transito dal fascino erotico alla trasfigurazione dell’amore spirituale che la rende simbolo della Chiesa.

Non per nulla il saggio è suggellato dall’«eterno femminino», ove «la bellezza è forma espressiva del vero e del bene», la triade teologica suprema. Per questo, «l’intera Commedia è costruita organicamente, come sopra il suo perno, sull’incontro di Dante e di Beatrice in vetta al Purgatorio». E il teologo procede proprio da questo snodo ispiratore per ascendere al Paradiso: «Beatrice guarda Dio, Dante guarda Beatrice e verifica nel suo purissimo specchio il cenno di Dio». Giunto nelle nove sfere paradisiache con Beatrice, von Balthasar offre una suggestiva comparazione tra il cosmo classico-antico e quello cristiano, integrati da Dante in una unità che il teologo cerca di decifrare in pagine piuttosto complesse, mentre l’Inferno gli permette un altro parallelo di indole temporale, «tra epoche diverse».

La sua conclusione rimane, comunque, quella da cui siamo partiti: «L’estrema parola del poema è nel rapporto fra Dante e Beatrice, fra Gabriele e Maria, fra amore terrestre e celeste, fra eros e agape all’interno dell’Eros che tutto abbraccia». Nel flusso incessante di pubblicazioni che hanno voluto dare sostanza culturale alla memoria del settimo centenario dantesco, raccogliamo solo un piccolo gioiello di esegesi critica a cui possiamo riservare soltanto un cenno finale. Lo scegliamo anche per un vezzo personale: intendiamo riferirci alla Lettera ai cardinali italiani che stavano per entrare in conclave nella primavera del 1314 a Carpentras per eleggere il successore del guascone Clemente V, già arcivescovo di Bordeaux, colui che aveva trasferito la sede papale ad Avignone. Uno dei nostri più raffinati medievisti, Gian Luca Potestà della Cattolica di Milano, ci offre uno studio esemplare di questo scritto dantesco che possediamo in unico testimone a mano del Boccaccio, custodito nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. L’analisi affascinante del testo dal dettato «acrobatico» e fin oscuro, con tonalità profetiche alla Geremia, ci permette di entrare anche nel contesto storico travagliato di quegli anni e di sentir fremere lo sdegno di Dante, desideroso di vedere calare il sipario sull’esilio avignonese, opera di quel papa francese che egli lapidariamente bolla come «un pastor senza legge» e scaraventa nell’Inferno (XIX, 82-83). Invitiamo gli appassionati del poeta a lasciarsi guidare da Potestà in un percorso che apre tutti gli scenari di quell’epoca convulsa, ne fa emergere ogni particolare, disegna vivaci ritratti dei cardinali a partire da Napoleone Orsini, e fa brillare l’anima ardente del laico cristiano Dante.