Ratzinger-Benedetto XVI: tra ricordo e memoria

Si moltiplicano, in questo momento conclusivo della sua lunga esistenza terrena, i ritratti di Josef Ratzinger-Benedetto XVI, come accade a chi ha segnato con la sua presenza una fase significativa della storia ecclesiale e, più in generale, di quella universale. Difficile è, perciò, aggiungere un tratto o un elemento inedito al suo volto di credente, di teologo, di pastore della Chiesa, e soprattutto riuscire a comprimerlo nel perimetro limitato di un articolo, dopo che a lui ancora in vita sono state dedicate varie e talora imponenti biografie.

Ho, così, pensato di adottare due registri simbolici affidandoli ad altrettante categorie che lessicalmente sono considerate sinonimiche, ma che hanno una loro identità specifica, anche se non esclusiva: ricordo e memoria. Il primo termine, come suggerisce l’etimologia, è un «riportare al cuore» e ha, quindi, un profilo personale, soggettivo e fin affettivo. Il secondo vocabolo si basa su dati, eventi, documenti, ed è per questo che nella Bibbia suppone un’oggettività storica: «memoriali» sono definiti, in particolare, due componenti fondamentali della fede, da un lato, la liberazione esodica di Israele dall’oppressione faraonica e il dono della terra promessa, celebrati nella pasqua ebraica, e, d’altro lato, l’eucaristia che, nella cena di Cristo, è memoria della sua morte sacrificale e della sua risurrezione pasquale.

Nel nostro profilo del papa emerito i due aspetti s’intrecceranno per ragioni personali e oggettive. Il mio primo incontro fu implicito, creato dalla lettura della sua opera teologica di maggior successo, riedita decine di volte, quell’Introduzione al cristianesimo, nata da una serie di lezioni sul Credo cristiano in cui s’incrociava la finezza della riflessione con la sensibilità verso la cultura moderna (si citavano Bernanos, Buber, Camus, Hölderlin, Nietzsche, Sartre…). Nel 1985 avvenne, invece, la conoscenza diretta, con la mia cooptazione a membro della Pontificia Commissione Biblica, che è un po’ il Gotha dell’esegesi cattolica internazionale. Fu così che per un intero decennio ho trascorso ogni anno una settimana col card. Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Nelle riunioni quotidiane della Commissione la sua presenza non era mai protocollare ma sempre originale, stimolante, rispettosa della diversità dei vari membri, alcuni veri e propri luminari in quella disciplina. Nei colloqui privati appariva una vena che pochi immaginavano in lui, considerato un arcigno tutore dell’ortodossia cattolica, ossia l’ironia gradevole. Nacque, così, una certa spontaneità che mi permise – come membro della giuria del Premio Basilicata – di sollecitare la sua accettazione del riconoscimento riservato alla letteratura spirituale. A Potenza il suo intervento – articolato nella celebrazione liturgica, nella conferenza, nelle interviste e nei dialoghi – fu un’altra tappa del mio «ricordo» di lui, che pure continuò attraverso le pubblicazioni reciprocamente «dedicate» che ci scambiavamo.

Anzi, a Milano nel 2002 ebbi l’occasione di presentare con lui un suo testo sulla liturgia, uno dei capitoli vivaci dell’arco dei suoi interessi teologici che si allargavano anche verso confini apparentemente periferici come il diritto e l’etica naturale. Giunse, così, quella data che segnò per me un incrocio tra ricordo e memoria: nel settembre 2007, ormai divenuto papa Benedetto XVI, mi chiamava accanto a sé («So quanto Le costerà lasciare la Sua Milano», mi disse), mi ordinò arcivescovo, e mi affidò il dicastero vaticano della Cultura, dei Beni Culturali e dell’Archeologia Sacra, creandomi poi cardinale nel novembre del 2010.

A questo punto la memoria s’infittisce di dati che partecipano un po’ anche della storia del suo pontificato. Certo, la prima componente rimase sempre quella teologica che si allargava – lo si è detto – all’intero ventaglio delle varie tematiche, convinto com’era della necessità di circoscrivere con rigore il terreno solido della fede cristiana in un’epoca secolarizzata, fluida, nebulosa, segnata da quel «relativismo» che sgretolava le categorie morali e veritative di base, a partire dallo stesso concetto di natura umana. Nell’orizzonte così vasto e molto studiato della sua opera e del suo magistero un cenno particolare merita la sua trilogia su Gesù di Nazaret, scritta significativamente a doppia firma, Josef Ratzinger-Benedetto XVI.

Ebbi l’occasione di presentarla a più riprese, non solo perché sintetizzava, come lui stesso affermò, «un lungo cammino interiore», ma anche perché ricomponeva in armonia storia e fede, un tema a lui caro. Nel Gesù storico si presenta anche l’epifania divina del Cristo. L’architettura epistemologica del suo trittico cristologico diventava in filigrana quella della stessa S. Scrittura ed esigeva – come ribadirà nel suo successivo documento Verbum Domini (2010) – il riconoscimento di «due livelli non separati, contrapposti o giustapposti, anche se distinti, che si danno solo in reciprocità». Esegesi e teologia, storia e trascendenza s’incrociano in simbiosi.

La «memoria», però, si è concretizzata in altre componenti che hanno travalicato il mio ricordo personale e che sono state e sono rilevanti per la Chiesa. Di grande impatto fu la nascita del «Cortile dei Gentili» per il dialogo tra credenti e non credenti attorno ai temi capitali dell’essere e dell’esistere. A lanciarlo, sulla base simbolica dell’omonimo «cortile» del tempio di Gerusalemme ove potevano accedere anche le gentes, i pagani, che incrociavano le loro voci e i loro sguardi con quelli degli Ebrei, fu un discorso che il papa tenne il 21 dicembre 2009 alla Curia romana. Benedetto XVI invitava a dar vita a un dialogo «con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo come Sconosciuto».

Inaugurato nella capitale «laica» per eccellenza come Parigi, con eventi alla Sorbona, all’Accademia di Francia, all’Unesco e con un video-messaggio dello stesso pontefice ai giovani radunati per uno spettacolo nel piazzale di Notre-Dame, il «Cortile dei Gentili» si è ormai ramificato in tutto il mondo con le tipologie più diverse, col coinvolgimento dei soggetti più inattesi (suggestivo è l’annuale «treno dei bambini» provenienti dalle esperienze più difficili e fin drammatiche), negli spazi più vari (dalle piazze alle università, dalle carceri ai parlamenti), coi temi più «pesanti» filosofici e sociali ma anche con i soggetti più sorprendenti come la moda o le musiche giovanili.

Il 21 novembre 2009, esattamente un mese prima di quel discorso, ero riuscito a convocare nell’ambito emozionante della Sistina col suo fondale michelangiolesco trecento artisti di ogni disciplina, nazionalità, religione o ideologia. Il papa era giunto in mezzo a loro e aveva parlato testimoniando un’altra visione a lui cara, quella che accende nel cielo del pensiero una costellazione di tre astri luminosi, il verum, il bonum, il pulchrum. Filosofia/teologia, etica ed estetica sono i tre trascendentali che guidano l’umanità. La via pulchritudinis – già percorsa nel Medio Evo da quel san Bonaventura che era stato oggetto della sua tesi di laurea, una strada da lui amata attraverso la passione per la musica – «ricorda che la storia dell’umanità è movimento e ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa».

Queste sue parole in quell’occasione segnarono anche un altro momento «memorabile». Era il 31 ottobre 2012 e, a cinquecento anni esatti dall’inaugurazione della volta della Sistina alla presenza del suo artefice Michelangelo, papa Benedetto aveva scelto di ripetere gli stessi atti che Giulio II aveva compiuto il 31 ottobre 1512. Volle, dunque, che gli fossi accanto durante i primi Vespri dei Santi, proprio nella Cappella Sistina, con lo sguardo rivolto a quella straordinaria esegesi pittorica dei primi capitoli della Genesi. D’altronde, già l’anno prima, per i suoi sessant’anni di sacerdozio avevo voluto convocare per un augurio attraverso le loro opere, altrettanti pittori, scultori, architetti, letterati, fotografi e musicisti. Tra questi ultimi desidero menzionare, oltre ad Arvo Pärt che gli dedicò un Vater unser di pura bellezza, Ennio Morricone che aveva creato un curioso spartito a croce con un intenso Miserere.

Il filo dei ricordi e delle memorie potrebbe ovviamente allungarsi fino a quel febbraio 2013 in cui, a dimissioni già dichiarate nel Concistoro a cui avevo partecipato, Benedetto XVI volle che fossi io a predicare gli ultimi Esercizi Spirituali del suo pontificato. Egli li seguì nel silenzio e nella solitudine più assoluta, mentre fuori le mura del Palazzo Apostolico la comunicazione di massa si agitava elaborando anche le più stravaganti interpretazioni del suo gesto. La dimensione mistica della sua persona gli aveva fatto superare, anche se con sofferenza interiore, anni ardui e controversi per la stessa Chiesa cattolica.

Il nostro è stato un bozzetto limitato, ma non può concludersi senza il suggello di un tema caro al teologo e al papa, quello che egli definiva come «la ragione allargata», un motivo che avrebbe voluto sviluppare nel discorso «impedito» alla Sapienza di Roma, ma che ha retto vari suoi interventi. La conoscenza umana è «simbolica», ossia unisce diversi livelli e percorsi, da quello scientifico all’estetico, dal filosofico al teologico, dallo sperimentale al mistico. Proprio per questo si deve impedire che la verità sull’essere e sull’uomo sia considerata appannaggio solo di un modello di conoscenza, com’è la pura razionalità scientifica alla quale sfuggono dimensioni che solo altri canali gnoseologici riescono a perlustrare.

In questa linea lasciamo, allora, spazio, alla sua stessa voce nel discorso tenuto al «Collège des Bernardins» di Parigi il 12 settembre 2008. «Escatologia e grammatica sono interiormente connesse l’una con l’altra. Il desiderio di Dio include l’amore per le lettere, l’amore per la parola… Diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esige la cultura della parola, fa parte del monastero anche la biblioteca che indica le vie verso la parola». Ricordo e memoria si uniscono in una consonanza che ha nella fede e nella ragione, nella ricerca e nella verità, nell’attesa storica e nell’incontro escatologico la sigla della vita e dell’opera di Josef Ratzinger-Benedetto XVI.

GIANFRANCO RAVASI