Pietro e Paolo

Affrontati faccia a faccia oppure abbracciati tra loro: appaiono così i due apostoli che si celebrano in questa domenica. Sono le due colonne della Chiesa, Pietro, che incarna l’ecclesia ex circumcisione, cioè i giudeo-cristiani, e Paolo, emblema della ecclesia ex gentibus, i cristiani provenienti dal paganesimo. Questo modello iconografico binario è stato denominato concordia apostolorum e coloro che saranno a Roma per il Giubileo lo potrebbero contemplare in un affresco delle catacombe di s. Sebastiano sulla via Appia. In verità, questa concordia ebbe anche i suoi travagli, come potranno scoprire coloro che leggeranno la Lettera ai Galati di Paolo nei primi due capitoli.

Secoli dopo l’arte catacombale, nel 1624-25 il noto pittore svizzero di Ascona Giovanni Serodine rappresenterà i due mentre si incontrano sulla via del martirio (la tela è ora alla Galleria d’Arte Antica di Roma): Paolo ha lo sguardo fisso negli occhi di Pietro ritratto di profilo, mentre le loro mani sono strette in un ultimo saluto. S. Ambrogio non esiterà ad affermare che nec Paulus inferior Petro, mentre un testo apocrifo dello stesso vescovo di Milano puntualizzerà che primus Petrus apostolus, nec Paulus impar gratia est, se Pietro è il principe degli apostoli, Paolo non gli è inferiore per grazia divina.

Fermiamoci in modo essenziale sul martirio dei due apostoli, ignoto al Nuovo Testamento ma venerato ancor oggi attraverso le rispettive tombe nelle basiliche romane a loro dedicate (lasciamo a parte la complessa questione archeologica di queste aree sepolcrali). Forse la loro fine è da connettere alla persecuzione dei “Crestiani” da parte di Nerone nel 64, repressione attestata da Tacito nei suoi Annali (XV, 44, 2-5). C’è, però, un’interessante testimonianza storica. Essa va oltre il cenno allusivo del papa Clemente I che attorno al 95, scrivendo una lettera ai cristiani di Corinto, affermava che Paolo «conseguì la vera gloria della sua fede», sorte comune alle «due colonne più elevate» della Chiesa.

Più esplicito è, invece, lo storico Eusebio di Cesarea (265 c.a.-340) che nella sua Storia ecclesiastica riserva un ampio paragrafo (II, 25,1-8) alla persecuzione di Nerone, alla decapitazione di Paolo e alla crocifissione di Pietro. Egli risale alla precisa attestazione di un presbitero romano di nome Gaio, vissuto sotto il papato di Zefirino (198-216/17), che polemizzando con un eretico, un certo Proclo, affermava: «Io sono in grado di mostrare i trofei degli Apostoli: Andando infatti al colle Vaticano o lungo la via Ostiense vi troverai i trofei di quelli che hanno fondato questa Chiesa». È, quindi, una prova “monumentale” già presente nel II sec., del martirio e sepoltura degli apostoli fondamentali della Chiesa di Roma.

A questo punto introduciamo una divagazione nella nostra contemporaneità e lo facciamo segnalando il curioso saggio di un giovane studioso, Daniele Calzetta. Il titolo è un po’ anodino, eppure è pertinente, Vedere Paolo. È, infatti, l’analisi delle principali trasposizioni cinematografiche dell’Apostolo, a partire in realtà da un film mai realizzato, eppure il più celebrato a causa del suo regista, Pier Paolo Pasolini. C’è rimasto, però, un «abbozzo di sceneggiatura per un film su San Paolo (sotto forma di appunti per un direttore di produzione)» datato 22-28 maggio 1968 e pubblicato da Einaudi nel 1977.

Lo studioso percorre l’intero testo pasoliniano offrendone la trama che riporta Paolo nella contemporaneità dei frementi anni 1967-68 in un orizzonte planetario con le nuove capitali imperialistiche e socio-culturali come New York, Washington, Parigi e così via, compreso il suo sorprendente martirio in un alberghetto di New York. Due «violenti, laceranti colpi di fucile» raggiungono l’Apostolo che «si abbatte sul ballatoio, immobile sul suo sangue. Ha una breve agonia… Il sangue si raggruma in una fessura del ballatoio e comincia a gocciolare giù sul lastricato del cortile. È una piccola pozza rosea, su cui continuano a cadere le gocce del sangue di Paolo».

Gli altri sono film realizzati, anche se non dotati di particolare successo, mentre in un caso si è ripetuto lo stesso esito negativo: Vittorio De Seta aveva lavorato anch’egli a una sceneggiatura per tre anni, dal 1973 al 1976, scrivendo oltre mille pagine per un progetto però abortito. Di quelli analizzati da Calzetta personalmente conosco solo lo “sperimentale” … e di Shaul e dei sicari sulle vie di Damasco del regista Gianni Toti (1974), accuratamente approfondito in un ampio capitolo del saggio. La trama autobiografica che Paolo narra ai suoi carcerieri romani si ricompone in un mosaico che non è storico ma ideale e teologico-filosofico, ma anche con una finalità sociale insita nell’aspirazione dell’Apostolo di spazzare via le frontiere etniche e religiose, trovando però l’opposizione veemente degli zeloti, frenetici nazionalisti, denominati “sicari” dai romani a causa della sica, il pugnale da loro usato negli attentati.

L’arco cinematografico allestito dal nostro studioso comprende altri quattro film più recenti dei registi Mario Azzopardi, maltese-canadese, girato nel 2014, dell’inglese Andrew Hyatt (2018), dell’americano Jerry Thompson (2018) che riporta il martirio-risurrezione di Paolo nell’attualità nientemeno che dell’Oregon e, infine, del più noto Aleksandr Sokurov (e non Sokoruv, come si legge nel titolo del capitolo dedicato al suo film Arca Russa del 2002). L’opera è stata girata durante un solo giorno nell’Ermitage di San Pietroburgo con un unico piano-sequenza. Le creature artistiche di quel celebre museo nel film si animano per evocare la figura dell’Apostolo, a partire dal mirabile San Pietro e San Paolo di El Greco con l’impressionante coppia delle figure allampanate che ci ripropongono quella concordia apostolorum da cui siamo partiti.