Moda celestiale

da “Il Sole 24 Ore” – 25 febbraio 2018 – di Gianfranco Ravasi.

Da un lato, ecco un intenso e fin emozionante saggio biblicamente intitolato Hai coperto la mia vergogna, tradotto lo scorso anno dal francese: a scriverlo è Anne Lécu, una religiosa domenicana che è anche medico e che dal 1997 esercita queste due sue «professioni» in un carcere dell’Ile-de-France. È una sorta di inchiesta biblica, teologica e spirituale «al tempo seria e allegra – come confessa l’autrice –, un vagabondaggio nel paese delle tuniche di pelle e di lino», alla ricerca non tanto dei tessuti ma dei simboli connessi, la nudità, la vergogna, l’innocenza, la malizia, il manto di gloria. Un viaggio che parte dal Creatore che come un padre-sarto confeziona – all’inizio della Bibbia e della storia – «per l’uomo e sua moglie tuniche di pelle per vestirli» (Genesi 3,21).

D’altro lato, immaginiamo di ricreare e rivedere l’ironica e grottesca sfilata di moda cardinalizia evocata dal regista Federico Fellini in una sequenza per certi versi esilarante del suo film Roma del 1972, quando per altro Paolo VI aveva già di molto semplificato il sontuoso abbigliamento cardinalizio, mozzando ad esempio le lunghe code delle cappe di porpora. Domani 26 febbraio nel Palazzo Colonna di Roma verrà presentata in anteprima una mostra particolarmente suggestiva intitolata Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination. Basata su una ricca selezione di paramenti e vesti sacre provenienti dall’imponente patrimonio liturgico del Vaticano, l’esposizione si svolgerà dal 10 maggio all’8 ottobre al Metropolitan Museum di New York sotto l’egida del suo Costume Institute, a cura di Andrew Bolton, mentre l’evento di Palazzo Colonna vedrà anche la presenza della vicedirettrice del Metropolitan Debora Carrie Barratt. Il coinvolgimento delle testate di moda, a partire naturalmente da Vogue, attesta quanto il complesso dei paramenti sacri, oltre ad avere una dimensione artistica, riflette la sensibilità delle varie epoche, proprio come accade per l’abbigliamento profano.

I paramenti liturgici, così come l’arredo dedicato al culto, costituiscono infatti un vero e proprio specchio delle varie fasi vissute dalla Chiesa cattolica. È ciò che accade anche in generale per l’abito comune e gli oggetti domestici, tant’è vero che uno dei più popolari scrittori dell’Ottocento francese, Honoré de Balzac, poteva comporre un intero Trattato della vita elegante (1830) ponendolo idealmente all’insegna di questo motto: «Il vestito è espressione della società», ne è in pratica l’autoritratto. La veste, infatti, non è meramente un indumento che ci protegge dal freddo o dal caldo o dalla nudità, funzione per altro valida, riconosciuta già dalla Bibbia – come si è detto – agli esordi dell’umanità. Ma, come appare chiaramente dalla creatività della moda e dal nesso linguistico tra il latino vestis, «veste», e «investitura» – vocabolo presente in molte lingue europee per indicare la nomina a un incarico ufficiale – l’abito, attraverso la sua dimensione simbolica, appartiene alla stessa cultura e la esprime. Non per nulla la tunica di lino senza cuciture di cui viene spogliato Cristo sulla croce si trasfigura in un segno agli occhi del quarto evangelista (Giovanni 19,23-24), mentre l’Apocalisse introduce una parata di eletti-santi-martiri avvolti in candide vesti.

La sfilata della quarantina di vesti e di arredi sacri vaticani presenti nella mostra Heavenly Bodies merita, allora, di essere giustamente classificata sotto la categoria della «catholic imagination», come recita il sottotitolo. La gamma degli oggetti esposti abbraccia la vasta tipologia dei paramenti sacri come i piviali, le pianete, le dalmatiche, le stole, i camici, le mitre episcopali, la tiara papale, gli zucchetti, le fasce, le croci pettorali, gli anelli, i pastorali e così via, ma anche i calici e gli ostensori, usati nelle celebrazioni eucaristiche. La selezione offerta dalla mostra è marcata da un’indubbia qualità sontuosa: essa è stata esaltata nell’epoca barocca ma è rimasta nell’ornamentazione liturgica dei secoli successivi. Si voleva, così, per questa via proclamare la trascendenza divina, il distacco sacrale del culto dalla ferialità quotidiana, lo splendore del mistero.

All’inizio non fu così, anche perché la comunità ecclesiale si riuniva kat’ oikon, «presso la casa» delle varie famiglie cristiane, come ricorda spesso san Paolo (ad esempio, Romani 16,5). La tavola ove si consumava il pranzo diveniva, così, la mensa eucaristica, e pare che fino al V secolo i ministri indossassero abiti comuni, sia pure festivi, escludendo quindi quelli feriali e le divise militari, così come sembra che si usassero semplici calici di vetro. Si passò, poi, ad abbigliamenti modellati sulle vesti e sulle insegne imperiali. Da quel momento iniziò il lungo, molteplice e variegato itinerario della «moda sacra», nella quale si rispecchiava il gusto delle diverse epoche e si assegnava a ogni paramento, anche minimo, un valore simbolico. Questo avveniva anche nella scia di un passo paolino (Efesini 6,11-17) nel quale paradossalmente l’Apostolo aveva trasformato l’intero apparato militare (armatura, cinturone, corazza, calzari, scudo, frecce, elmo, spada) in metafore spirituali (verità, giustizia, pace, fede, salvezza, Spirito divino, Parola di Dio).

Bisogna, però, ricordare che già l’Antico Testamento aveva riservato ampio spazio ai paramenti sacerdotali e all’arredo della tenda santa dell’alleanza tra Dio e Israele, santuario mobile nella marcia del popolo nel deserto del Sinai e prefigurazione del tempio di Sion a Gerusalemme (Esodo 30-31; 35-40). Si tratta di prescrizioni minuziose destinate alla confezione di vesti e di arredi sacri, affidati a un artista di nome Bezalel che, per eseguire la sua opera, è stato «colmato dallo spirito di Dio, perché egli abbia sapienza, intelligenza e scienza di ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento, bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di manufatto artistico…, per ricamare in porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso e per tessere…» (Esodo 35,31-35). C’era, dunque, in questo Bezalel un’«ispirazione» non solo artistica, ma anche divina, come quella destinata ai profeti.

Naturalmente incombe sempre sulla ritualità e, quindi, sull’apparato liturgico cristiano il monito di Gesù che ironizzava sugli osservanti esteriori che «allargano i loro filatteri e allungano le frange», ossia i tefillin e il tallit, componenti del culto giudaico (Matteo 23,5). Resta, infatti, anche nel rito sacro il rischio che segnalerà lo scrittore inglese William Hazlitt nel suo saggio Del carattere clericale (1818): «Coloro che fanno del vestito una parte principale di se stessi finiscono in generale per non valere più del loro abito». Tuttavia la bellezza e l’arte sono state per secoli inseparabili sorelle della fede e della liturgia cristiana, soprattutto nel cattolicesimo e nell’ortodossia. E – come ha fatto Henri Matisse con le sue mirabili casule da lui disegnate per la cappella di Vence e ora conservate nei Musei Vaticani – questo legame dovrà continuare a rivivere e a rinnovarsi attraverso il dialogo anche con l’arte contemporanea.

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Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, Mostra curata dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, aperta dal 10 maggio all’8 ottobre 2018. Presentazione alla stampa a Roma, Palazzo Colonna, 26 febbraio 2018 ore 15, con la presenza della Vicedirettrice del Met, Debora Carrie Barratt, del Curatore, Andrew Bolton e di S. E. Cardinale Gianfranco Ravasi (Catalogo della mostra in preparazione; info su: https://www.metmuseum.org/press/exhibitions/2017/heavenly-bodies).

Si veda anche Anne Lécu, Hai coperto la mia vergogna, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano), pagg. 143, € 16,00.