Lo Stato è tornato ma in economia non è la soluzione

da La Repubblica – 27 aprile 2021 – intervista di Simonetta Fiori.

«La pandemia ha messo fine a un mondo alla rovescia, dove la società era a servizio dell’economia. E l’economia era al servizio della finanza. Con un accresciuto benessere per pochi, e un diffuso malessere per molti. Questo ciclo si è chiuso. E si è aperta una nuova stagione che riporta in auge una concezione etica del mercato». Nel magnifico Palazzo della Consulta, dove ha lo studio affacciato sul Quirinale, Giuliano Amato dice cose di sinistra. Le ha dette anche in passato, ma questa volta sembra spinto da un’urgenza più forte, che riconduce i suoi 83 anni alla giovane militanza socialista in difesa dei minatori di Carrara. «Per un uomo della mia storia vedere crescere in questi anni il valore delle azioni in proporzione al numero di licenziati era una stortura inaccettabile. Mi ha colpito che a levarsi contro queste distorsioni siano state poche voci: quelle di una ragazzina svedese e di un Papa anziano. Due profeti paralleli rimasti a lungo inascoltati». Due volte premier, più volte ministro della Repubblica, ora Giuliano Amato veste i panni del vicepresidente della Corte costituzionale. E in questo ruolo è attento a navigare a largo della politica italiana.

Anche lei vede in papa Francesco una voce di opposizione che è mancata a sinistra?
«Papa Francesco ha messo al centro del suo pontificato la solidarietà, facendone un connotato essenziale delle politiche pubbliche. Non è un caso che i temi sociali che un tempo occupavano i giornali di sinistra oggi io li ritrovi sull’Avvenire. Devo confessare che negli ultimi anni mi trovo a discorrere più facilmente con i cattolici impegnati che con i tradizionali compagni d’avventura politica. Il Cortile dei Gentili è una palestra ideale molto stimolante».

Sul tema del neoliberismo, la sinistra è apparsa afona, forse anche complice.
«Qualcuno ha sostenuto che il fallimento storico della sinistra sia da attribuire all’incapacità di cogliere quello che stava accadendo. Altri hanno detto che, pur percependo la stortura, era essa stessa prigioniera delle coordinate del neoliberismo. Sono andato a rivedermi il primo numero della rivista Italiani/Europei, che esordiva vent’anni fa con uno scambio di lettere tra me e Massimo D’Alema: la nostra era un’analisi precisa delle trasformazioni in atto, nell’urgenza condivisa di riequilibrare il mercato».

Quindi c’era la consapevolezza.
«Avevamo capito benissimo. Ma evidentemente la sinistra non è stata più in grado politicamente di sintonizzarsi con i ceti che nelle nostre società venivano perdendo certezze. Il risultato è stato il loro progressivo allontanamento da alcuni caposaldi di quella tradizione culturale tra cui la fiducia nell’Europa. Non è accaduto solo in Italia. Alla delocalizzazione della produzione industriale, bestia nera dei lavoratori francesi, deve il suo successo Marine Le Pen».

Il virus ha dato ragione a chi invocava un mondo diverso?
«La pandemia ha reso mainstream la predicazione un tempo solitaria di Francesco e Greta, i quali hanno sempre rivendicato una sostenibilità dell’economia, il primo sul versante sociale e la seconda su quello ambientale. Dopo l’orrida parentesi tra gli anni Novanta del secolo scorso e gli anni Dieci del nuovo secolo, riemerge una visione dell’economia in cui pubblico e privato tornano a integrarsi. E al pubblico si chiede di immettere nell’economia incentivi non volti a massimizzare i quattrini di pochi ma a far crescere quello che gli economisti chiamano “il benessere multidimensionale”. I cultori dell’economia di mercato sono chiamati a fare i conti con il loro padre spirituale Adam Smith, il quale aveva collegato il capitalismo a un’etica, anticipando un principio che John Stuart Mill avrebbe fatto suo nel secolo successivo: nessuno può essere felice senza rendere felici gli altri».

È d’accordo con chi ritiene che l’Europa sia tornata a essere keynesiana?
«In un mondo segnato dall’incertezza, è inevitabile che si guardi allo Stato come parte essenziale della soluzione. La pandemia è un terremoto che ha scosso non solo la realtà materiale ma anche le idee. Per sopravvivere oggi non si può fare a meno dell’intervento pubblico. E si guarda al futuro con lo spirito che sta dentro il Recovery Plan. Nessuno più osa contestare questa impostazione».

Cresce quindi la fiducia nello Stato?
«Certo, ma sarebbe dannoso illudersi di poter vivere sempre grazie alla manna dal cielo. O grazie all’helicopter money, secondo l’immagine riproposta sotto la pandemia del finanziamento diretto ai cittadini. È stato importante rimettere al centro lo Stato, e insieme il principio che un’economia dà il suo meglio quando garantisce un’adeguata copertura delle esigenze sociali: questo l’ha capito bene l’Europa, a lungo prigioniera del neoliberismo. Ma il ruolo dello Stato deve essere quello di promotore, non di gestore. Non vorrei mai che si tornasse al gelato di Stato. Continuo a pensare che i gelati debbano essere prodotti dai privati».

Lei è stato il premier che tra il 1992 e il ’93 privatizzò l’industria pubblica, sciolse il ministero del le Partecipazioni Statali e mise fine all’Agenzia per il Mezzogiorno, l’ultimo nome della Cassa.
«Io ho vissuto sulla mia pelle la fase del degrado dell’industria pubblica. Sapevo benissimo cosa avessero rappresentato l’Iri e l’Eni nella formazione di un management pubblico provvisto di un alto sentimento civile. Ma a lungo andare le imprese nelle mani dello Stato finiscono nelle mani delle domande parcellizzate della politica. E quindi il loro compito viene deviato o inquinato da interessi che non c’entrano con il bene pubblico».

Da socialista dovette mettere fine a un progetto nato nell’ambito di una cultura politica progressista.
«Lo feci senza remore perché mi trovavo di fronte a realtà sideralmente distanti rispetto alle origini. La Cassa del Mezzogiorno aveva meriti storici indiscutibili – penso solo alle opere idriche senza le quali la produttività del Sud sarebbe stata molto più ridotta – ma con il passare del tempo era diventata una cassa in senso bancario a cui attingevano vari intermediari politici per destinare le risorse secondo criteri particolari discutibili. È una condanna che minaccia inesorabilmente l’impresa pubblica: le ragioni del mercato politico sfondano su quelle del mercato economico e si ottiene l’effetto inquinante. Succede sempre così: ma qui mi devo fermare».

Ebbe molte pressioni dai partiti?
«Mi cercarono anche nei bagni di Palazzo Chigi. Dopo aver dato mandato di trasformare gli enti in società da cui scomparivano i rappresentanti dei partiti, mi ritirai a vedere la partita tra Steffi Graf e Arantxa Sánchez. Preferivo aspettare a casa la comunicazione del ministro Guarino. Non fu un periodo facile. E ancora oggi mi sento dire: privatizzaste per far cassa. Eh no, la Thatcher privatizzò per far cassa. Noi lo facemmo perché era l’unica soluzione per liberarci da metastasi altrimenti dilaganti».

All’epoca il direttore generale del Tesoro era Draghi.
«Sì, ma era più coinvolto nella gestione del debito che non nelle privatizzazioni. Abbiamo sempre avuto un’intesa eccellente».

Lei un anno fa ha scritto che Draghi, sempre rispettoso della politica e ben capace di negoziare con i suoi esponenti, vede in essa “tratti essenziali” troppo diversi dai suoi per pensare di farne parte.
«Infatti Mario è un coactus tamen volui, sebbene costretto volli. Il mondo è pieno di persone che aspirano a fare il presidente del consiglio, lui non era in questa lista. Naturalmente capisce la politica ed è in grado perfettamente di farla».

Lei prima parlava di un’accresciuta fiducia nello Stato. È l’eredità che ci lascia la pandemia?
«Sì, anche se non possiamo essere molto ottimisti. Secondo una proiezione dell’intelligence statunitense, si tratta di una fiducia momentanea, legata al ruolo degli Stati nell’emergenza. Ma di fronte alle difficoltà e alle incertezze crescenti le nostre società tenderanno a chiudersi in piccoli nuclei di fiducia, come la famiglia o le comunità etniche e religiose, con scarsa disponibilità ad affidarsi ai governi».

La ritiene una proiezione fondata?
«Non è facile dare una risposta. La pandemia ci ha insegnato il valore enorme della cooperazione tra persone: le mascherine, il distanziamento, tutte le misure adottate per contenere il virus. Ma le chiusure a cui si riferiscono gli analisti americani potrebbero interrompere il prezioso meccanismo cooperativo che nutre la democrazia e ci permette di entrare nel futuro con fiducia. In Italia ancora moltissimi cittadini analfabeti funzionali non sono in grado di capire la formulazione stessa dei problemi e le loro soluzioni: è abbastanza improbabile che possano sintonizzarsi sulle ragioni di una governance collettiva. E allora ci troviamo davanti a un bivio. Ed è difficile prevedere quale strada imboccherà il paese».