Le trame del prefetto Ponzio Pilato

da Il Sole 24 Ore – 18 aprile 2021 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi ha raccolto delle rivisitazioni letterarie di Ponzio Pilato nel Novecento.

N TIUS PILATUS, PRAEF…IUDA…E: su un blocco di calcare, emerso dai materiali di un teatro, si leggevano queste lettere di facile decifrazione. Gli archeologi di una missione milanese di scavi nel 1961 avevano identificato in questa iscrizione il solo riferimento diretto e contemporaneo – fatta eccezione per le attestazioni letterarie di Tacito, Giuseppe Flavio, Filone e naturalmente dei Vangeli – di Ponzio Pilato, praefectus della Giudea, ossia governatore o procurator (il titolo più comune) di quella provincia romana. La località della scoperta era Cesarea Marittima, la sede di quel rappresentante supremo dell’impero in Palestina. Là egli era approdato nel 26/27 d.C. e aveva gestito il suo potere con sprezzante provocazione nei confronti di quei sudditi renitenti.

Di questo oscuro funzionario si sarebbero perse le tracce, se non nei manuali specialistici, se la sua vita non si fosse incrociata con la morte di Gesù di Nazaret. Non si può, a questo punto, non citare il sorprendente e ormai famoso racconto di Anatole France, Il procuratore di Giudea (1902) col dialogo tra Pilato, ormai pensionato, e l’ex-collega governatore di Siria. «Ponzio, ti ricordi di Gesù il Nazareno che fu crocifisso non so più per quale delitto? Ponzio Pilato aggrottò le sopracciglia, si portò la mano alla fronte come chi vuole ritrovare un ricordo. Poi, dopo qualche istante di silenzio: Gesù – mormorò – Gesù il Nazareno? No, non ricordo!».

Eppure è proprio per merito di questo dimenticato ebreo che ogni domenica in tutte le chiese del mondo si ripete nel Credo il nome del praefectus Iudaeae: «patì sotto Ponzio Pilato e fu crocifisso». È ancora nell’eco di quell’incontro, cancellato dalla sua memoria, che Pilato è noto con la sua lapidaria replica ai sacerdoti ebrei che esigevano una modifica nella stesura della sua sentenza su Cristo: Quod scripsi scripsi, «ciò che ho scritto ho scritto».

Una frase che fa ora da titolo a un’interessante raccolta di «rivisitazioni letterarie di Ponzio Pilato nel Novecento», curata da Massimo Naro, un teologo molto attento alla cultura contemporanea, che premette una raffinata introduzione posta all’insegna di una trilogia emblematica: «Innocenza della verità, impotenza del diritto, inganno della politica». La pur ampia selezione di soggetti letterari non può coprire l’incessante attrazione esercitata da questo personaggio che il contemporaneo Filone, filosofo alessandrino, non esitava a bollare come «uomo per natura inflessibile e, in aggiunta alla sua arroganza, duro, capace solo di concussioni, di violenze, di rapine, brutalità, torture, esecuzioni senza processo e crudeltà spaventose e illimitate».

Tanti autorevoli scrittori del Novecento, conquistati dal procuratore romano – per altro, trattato benevolmente dall’evangelista Matteo che mette in scena anche la sua first lady (si legga 27,11-26) -, rispondono all’appello della dozzina di studiosi che compongono, non sempre in modo soddisfacente, i vari ritratti del volume. C’è ovviamente anche lo scettico Anatole France, messo in parallelo allo stentoreo credente Paul Claudel che si mette dal «punto di vista di Pilato» condannato al dubbio e schiacciato dal peso dell’incontro con quello «Sconosciuto che stava di fronte a me». Se, nella storia culturale dell’Occidente lunga è la fila dei profili di Pilato, è necessario partire dai bozzetti disegnati dagli evangelisti: essi vengono ricomposti in questo volume ricorrendo all’«ermeneutica narrativa» di un esegeta tedesco, Gerd Theissen, che non aveva esitato a imboccare la via del romanzo storico (All’ombra del Galileo del 1986).

Si procede poi anche lungo una traiettoria percorsa nei secoli da Agostino fino al biblista Giuseppe Ricciotti, posta spesso all’insegna dell’apologia di Pilato, un po’ come è accaduto a un altro più tragico personaggio, Giuda Iscariota, da molti considerato come l’artefice indiretto di un progetto salvifico trascendente che lo condannava alla «missione» del traditore necessario. Ma non poteva mancare anche lo sguardo femminile perché, come si diceva, Matteo introduce l’anonima moglie di Pilato, che verrà «battezzata» dalla tradizione cristiana col nome di Claudia Procula. Sulla strada costellata di miraggi fantasiosi e fantastici, tipica degli apocrifi cristiani, si era incamminato, invece, Friedrich Dürrenmatt col suo Pilatus, che è in realtà il toponimo di un monte svizzero: la leggenda creata dalla Legatio ad Caium vuole, infatti, che dopo le più strane vicissitudini la salma del procuratore romano sia stata celata o in una forra di un picco presso Losanna o in un lago montano vicino a Lucerna.

La sfilata continua con altri scrittori, tra i quali spicca Luigi Santucci, mentre alcuni autori italiani contemporanei di varia caratura sono riuniti in un coro finale. A suggello, però, non esiterei a collocare Michail Bulgakov col suo incompiuto e postumo (1966) romanzo Il Maestro e Margherita. Il suo Pilato emerge come un eroe complesso, tormentato nell’anima e perseguitato nel fisico dall’emicrania e dall’insonnia, sconcertato di fronte a un Maestro che gli fa balenare un radicale sistema alternativo di valori. Alla fine dell’opera ci si imbatte in un Pilato che guarda impietrito la luna, davanti ai cocci della brocca nella quale si era lavato le mani in quel giorno fatidico.

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