La mistica degli agnostici

da “Il Sole 24 Ore” – 26 dicembre 2015 – di Gianfranco Ravasi

Filosofo, matematico, scrittore (Nobel 1950 della letteratura) ma soprattutto agnostico, tant’è vero che poteva intitolare un suo saggio del 1927 Perché non sono cristiano. Ebbene, proprio Bertrand Russell sarà l’autore nel 1918 di uno scritto sorprendente fin dal titolo, Misticismo e logica, nel quale senza remore o imbarazzi asseriva che «i più grandi filosofi hanno sentito il bisogno sia della scienza sia della mistica». E tentava anche una definizione di questa realtà apparentemente così fluida e allergica a ogni stampo classificatorio: «La mistica è, in sostanza, poco più di una certa intensità e profondità di sentimento nei riguardi di ciò che si pensa a proposito dell’universo». Sta di fatto che la mistica, con la sua originale grammatica mobile, ha conquistato spesso personaggi a prima vista urticanti nei confronti della religione, forse per qualche esperienza deludente della giovinezza.

È il caso, ad esempio, di un altro Nobel letterario (1947), André Gide, in continuo duello con la sua matrice ugonotta, come si evince dai frequenti rimandi biblici dei titoli delle sue opere: Il ritorno del figlio prodigo, Se il grano non muore…, La porta stretta, Saul, Numquid et tu?, L’immoralista e così via. In uno dei suoi primi romanzi, I falsari (1925-26), esplorazione dei segreti contraddittori dell’anima perforando i veli dell’ipocrisia puritana, non esiterà a scrivere: «Senza la mistica non si raggiunge nulla di grande». E il fremito della spiritualità pervadeva l’autobiografico Numquid et tu?: «Penso che non si tratti di credere alle parole di Cristo perché Cristo è il figlio di Dio, quanto di comprendere che egli è il figlio di Dio perché la sua parola è bella al di sopra di ogni parola umana, e da questo riconosco che sei il figlio di Dio».

Potremmo allargare di molto il ventaglio degli agnostici tentati dalla mistica, a partire dallo straordinario sguardo “dall’occhio chiuso” (ma questa locuzione ebraica, applicata al mago Balaam in Numeri 24,3, significa in realtà “dall’occhio penetrante”) di Borges, per passare a Voltaire, ammiratore dell’Imitazione di Cristo, uno dei classici della spiritualità, le cui «parole sono come fuoco nascosto nella pietra», per giungere a Roland Barthes che considerava gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio di Loyola un eccezionale palinsesto dell’anima, per cui «non occorre essere né cattolici né cristiani né credenti né umanisti per essere interessati a quest’opera». A questo punto ci si può chiedere quale sia la calamita che attrae talvolta persone remote dalla pratica religiosa e persino individui apatici rispetto a temi religiosi, pronti però a pendere dalle labbra di un guru misticheggiante esotico?

Non è possibile isolare una risposta omogenea, anche perché – nonostante l’oceano bibliografico critico dedicato a un altrettanto vasto mare testuale – è arduo elaborare una definizione di questo fenomeno dalle infinite iridescenze. Non per nulla la parola “mistica” ha alla radice il verbo greco myein che esige un chiudere le labbra, tacendo, avendo appunto per oggetto il “mistero”. Uno dei più alti scrittori mistici, lo spagnolo cinquecentesco san Giovanni della Croce nella sua Salita al monte Carmelo introduceva una vetta di vertigine ritmata sulla dialettica antitetica Nada/Todo: «Per giungere a gustare tutto, non volere il gusto di niente. Per giungere a possedere tutto, non voler possedere niente. Per giungere ad essere tutto, non voler essere niente. Per giungere a sapere tutto, non voler sapere niente…». Ignorando le frontiere etnico-culturali e religiose, la mistica replica anche in Oriente questa stessa intuizione apofatica (ma non afasica) in un testo indiano: «Come si scopre Dio? Rendendo bianco il cuore con la meditazione silenziosa. Non rendendo nera la carta con scritti religiosi. Non rendendo spessa l’aria con le parole spirituali».

L’ineffabilità è il vertice mistico e, proprio per questo, alla Wittgenstein, possiamo dire che quello di cui non si può parlare, si deve narrare. Per usare l’acronimo NOMA del Non Overlapping Magisteria, ossia degli statuti epistemologici “non sovrapponibili” propugnati da Stephen Gould tra scienza e religione, potremmo dire che la mistica privilegia non la definizione teorica ma la descrizione esperienziale. È ciò che affermava il cancelliere trecentesco dell’università di Parigi, Jean Gerson nella sua Teologia mistica: «Coloro che non abbiano mai fatto l’esperienza interiore di Dio, non potranno mai sapere intimamente che cosa sia la teologia mistica, come chi non avesse mai amato non potrebbe mai dire con perfetta cognizione di causa cosa sia l’amore». In questa frase abbiamo già uno dei percorsi più lineari per intuire quel “magistero” non sovrapponibile alla pura e semplice razionalità e alla sua logica formale.

È, come dice Gerson, la sintassi dell’amore e qui potremmo dilagare in un’attestazione documentaria sterminata che attraversa i secoli e i continenti. La mistica ignora l’astrattezza teorica e, per dirla alla Péguy, la sua è un’“anima carnale” e innamorata, come testimonia luminosamente una schiava musulmana riscattata, la mistica Rabi‘a, vissuta a Bassora nell’VIII secolo: «Mio Signore, in cielo brillano le stelle, gli occhi degli innamorati si chiudono. Ogni donna innamorata è sola col suo amato. E io sono sola con te!… O Amato del mio cuore, non ho che te! O mia speranza, mio riposo, mia gioia, il mio cuore non vuole amare altri che te!». Passano sette secoli e sulla Sierra Morena spagnola il citato Giovanni della Croce nel suo Cantico spirituale ripete: «Oh, notte che hai congiunto l’Amato con l’amata, l’amata nell’Amato trasformata!… Il volto reclinai sull’Amato, tutto cessò, mi abbandonai, e ogni pensiero lasciai perdersi tra i gigli…» (ove è evidente il richiamo al biblico Cantico dei cantici, poema d’amore riletto in chiave mistica).

La via dell’amore, dello stesso eros, della bellezza, del «Tu e io liberi da noi stessi, uniti nell’estasi, pieni di gioia e senza vane parole» – per usare una delle mille espressioni del grande Rûmî (XIII sec.), il maestro dei dervisci danzanti e dei sufi – si associa a un’altra dominante, conseguente alla logica d’amore, quella della corporeità trasfigurata. Tra l’altro, “ascesi” in greco significa semplicemente “esercizio” che rende naturali anche le esperienze e le figure somatiche più ardue e apparentemente capaci di sfidare la stessa legge di gravità, come accade nella danza classica, nell’atletica o nell’acrobazia. La mistica è, quindi, mistero e diafania, trascendenza e fisicità, miracolo e realismo. Il famoso Pellegrino russo procede ritmando la sua preghiera sul battito cardiaco. Kierkegaard, autore di Tre discorsi edificanti (1843) dal titolo emblematico, nel suo Diario annotava che «giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare: si vede, perciò, quanto sia sciocco parlare di un “perché” pregare. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera».

È, questo, un filo d’oro della tradizione mistica di ogni latitudine. In Occidente, ad esempio, il grande e spesso indecifrabile Meister Eckhart, contemporaneo di Dante, ammoniva che «bisogna pregare con tanto fervore da tener avvinte le membra e le facoltà umane, orecchi, occhi, bocca, cuore e ogni senso, e non cessare finché non si sente di essere uno con Colui che preghiamo». Un santo vescovo ortodosso russo del ’700, Tikhon di Zadonsk, era ancor più didascalico: «Dammi, o Signore, cuore per amarti, occhi per vederti, orecchi per udire la tua voce, labbra per parlare di te, gusto per assaporarti, olfatto per sentire il tuo profumo, mani per toccarti, piedi per seguirti!». E un filosofo intriso di mistica come Rosmini elencava minuziosamente tutti i verbi dell’intimità con Dio: «conversare, parlare, soddisfare, ricordarsi, volere, intendere, conoscere, innamorarsi, pensare, operare, sperare, piacere, patire, vedere, toccare, gustare, vivere, morire, stare», verbi tutti mirati su Dio.

Un finissimo storico della mistica come è stato il gesuita Michel de Certeau evocava quei monaci del III-IV sec. che stavano ritti e muti per ore nella notte, simili ad alberi con le mani/rami levati al cielo in attesa del sole dell’alba e concludeva: «Era la loro preghiera; la loro parola era il loro stesso corpo in attesa». Era, questa, una modalità orante somatica statica, antitetica rispetto a quella dinamica dell’orazione “mobile” dell’ebreo osservante. In questa luce si intuisce che la mistica non è un decollo dalla terra verso cieli remoti, ma un tendere all’eterno e all’infinito tenendo i piedi ben piantati nella polvere della storia. Ancora Kierkegaard nel suo Diario: «Quando Adamo viveva nel paradiso, il motto era Ora! Quando fu espulso fu Labora! Quando Cristo venne nel mondo, il motto divenne Ora et labora!». E con una punta di ironia, il teologo martire del nazismo, Dietrich Bonhoeffer, dalla forte impronta spirituale, scriveva: «Penso che dobbiamo amare tanto nella nostra vita… e avere fiducia in lui quando giunge il momento di andare a lui. Ma che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l’eternità è, ad essere indulgenti, mancanza di gusto e comunque non volontà di Dio!».