La battaglia contro gli ariani

da Il Sole 24 Ore – 16 ottobre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi analizza la figura di Ario, divenuto celebre per la sua dottrina trinitaria che scatenò una grave crisi del cristianesimo.

The intolerable wrestle with words and their meaning. Così nei Quattro quartetti Thomas S. Eliot evocava la lotta che il poeta affronta con le parole, una lotta che diventa una lunga guerra nei commentatori, nei filologi, negli studiosi. È ciò che accade, ad esempio, in un paio di edizioni critiche riguardanti due personaggi vissuti nello stesso periodo storico ed entrambi in battaglia con un avversario comune. Stiamo parlando di Marcello, vescovo di Ancira (l’attuale Ankara), e di Eusebio, vescovo di Vercelli, morti poco dopo il 370, ciascuno, a modo suo, attore nella controversia fatta deflagrare una cinquantina d’anni prima da un prete di Alessandria d’Egitto, Ario.

Costui divenne celebre per la sua dottrina trinitaria che scatenò una delle più gravi crisi del cristianesimo di quel tempo, con strascichi per secoli e con pesanti implicazioni politiche, a causa delle ingerenze imperiali e dei contrasti ecclesiali locali. In poche battute, egli asseriva che nella Trinità solo il Padre può considerarsi Dio, non generato né creato, eterno e immutabile, mentre il Figlio era stato creato, divenendo lo strumento divino nell’opera della creazione, «primogenito di tutta la creazione», come scriveva san Paolo (Colossesi 1,15), interpretato da Ario alla luce della sua concezione secondo la quale Cristo «non sarebbe esistito, se Dio non ci avesse voluto creare».

A questo punto non ci resta che introdurre Marcello del quale sono giunti a noi una lettera completa indirizzata a papa Giulio I (337-352) – che lo ospitò a Roma con un altro inflessibile tutore dell’ortodossia e del concilio di Nicea (325), cioè Atanasio di Alessandria -, 128 frammenti e uno scritto Sulla santa Chiesa. Marcello voleva salvaguardare l’unicità divina ma non a spese della divinità del Figlio, che è generato e diventa Figlio di Dio non ab aeterno ma nel momento dell’incarnazione nel grembo di Maria. All’inizio c’è, quindi, una Monade divina (il Padre), che si dilata poi nella Triade con l’incarnazione di Cristo e con lo Spirito Santo, per poi ritornare a Monade alla fine dei tempi, una volta compiuta la storia della salvezza.

Nel Credo niceno-costantinopolitano, che i fedeli recitano ogni domenica nella Messa, contro la tesi di Marcello – il quale sosteneva il ritorno finale a un’unica Monade divina – si proclama che «il regno di Cristo [il Figlio] non avrà fine», permanendo così la Trinità. Eppure nessuno (o quasi) di quei fedeli e lo stesso sacerdote sanno chi sia Marcello di Ancira e la sua contestata tesi trinitaria. Chi volesse inoltrarsi in questa foresta teologica fittissima, alla cui ombra si accendono fiammeggianti falò di polemiche, ha ora a disposizione una minuziosissima edizione critica commentata (col testo greco a fronte) della manciata di scritti di Marcello. Ad allestirla è lo studioso cileno Samuel Fernández con un’imponente introduzione di oltre cento pagine in cui ordina una mappa della trama della riflessione frammentaria di quel teologo secondo le tappe della storia della salvezza: l’esistenza eterna di Dio, l’incarnazione e la storia che approda alla meta finale escatologica (per il profano, preziosa è la premessa di Emanuela Prinzivalli).

Ancor più sterminato è l’apparato che accompagna l’altro autore a cui alludevamo, Eusebio di Vercelli. Il suo epistolario e le antiche testimonianze che lo riguardano (s. Girolamo, s. Ilario di Poitiers, s. Ambrogio di Milano, Rufino di Aquileia e Massimo di Torino) occupano nell’edizione curata da Renato Uglione per la «Corona Patrum Erasmiana» una novantina di pagine col testo latino a fronte, mentre le altre quasi trecento sono occupate da introduzioni, commenti, bibliografie e indici. È uno stremante wrestle – per stare alla metafora eliotiana – con tutte le componenti fin microscopiche di quel pugno di testi.

Di origine sarda, dopo un soggiorno a Roma, Eusebio venne nominato vescovo di Vercelli nel 345 e rimase in carica fino al concilio di Milano del 355, ove rivelò la sua anima anti-ariana, opponendosi strenuamente alla condanna di Atanasio, il vescovo di Alessandria sopra citato, fiero assertore dell’ortodossia. L’imperatore Costanzo II, interferendo negli atti di quell’assemblea, condannò all’esilio Eusebio che fu relegato in Palestina, a Scitopoli, l’attuale Bet-shan. Ma la sua «via crucis» avrebbe avuto altre stazioni, prima in Cappadocia (Turchia) e poi nella Tebaide egiziana.

Ma anche gli imperatori muoiono e così accadde a Costanzo II nel 361. Eusebio poté così rientrare a Vercelli per una seconda fase del suo ministero episcopale (363-371). Il corpus più sostanzioso dell’epistolario riguarda le vicende del concilio di Milano e comprende sette lettere a lui indirizzate da attori vari di quell’evento, mentre tre sono dello stesso Eusebio, la prima a Costanzo II, un’altra molto ampia ai presbiteri e fedeli di Vercelli dall’esilio di Scitopoli e la terza al vescovo della città spagnola di Elvira, anch’egli netto oppositore degli eretici ariani.

Una nota a margine merita nella città piemontese il mirabile evangeliario del Codex vercellensis (634 pagine), attribuito dalla tradizione allo stesso vescovo, ma frutto più probabile del suo cenobio. La sua importanza per la critica testuale è dovuta al fatto che offre una versione latina del IV secolo antecedente rispetto alla Vulgata di s. Girolamo.