Intervento del Rettore dell’Università di Padova alla presenza del Card. Ravasi

In nome della patavina libertas e in nome dell’Ateneo di Galileo e di Marsilio da Padova, di Alberto Magno, Nicolò Cusano, Gaetano Thiene, di Roberto Bellarmino, fra’ Paolo Sarpi, Francesco di Sales, di Gregorio Barbarigo, Antonio Rosmini e Giuseppe Toniolo, do il benvenuto più cordiale e deferente al cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e protagonista di un intenso dialogo con la cultura contemporanea, che ci onora con la sua presenza, e ad Armando Torno, scrittore e giornalista del Corriere della Sera che ci aiuterà oggi a condurre questo dialogo dedicato ad un tema impegnativo e complesso.

Un saluto e un ringraziamento molto cordiale a tutte le autorità presenti.

Sempre nella sua lunga storia l’Università di Padova è stata uno spazio e un crocevia di dialogo, di intreccio pluralistico tra diverse esperienze scientifiche, esistenziali, culturali ed intellettuali, un luogo in grado di fecondare un confronto tra ragioni diverse nel reciproco rispetto tra diverse visioni e prospettive. Nella storia plurisecolare dell’Ateneo molto i credenti sono stati debitori nei confronti del pensiero critico della scienza e molto i non credenti sono stati debitori della storia e dell’esperienza cristiana. Indubbiamente, con Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”, dal momento che la cultura dell’Occidente è impregnata profondamente dai principi ebraico-cristiani. Ma altrettanto indubbiamente “non possiamo non dirci laici”, almeno nel senso di Claudio Magris, quando sostiene che la laicità è la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che invece è oggetto di fede. O anche nel senso dei nostri Galileo e fra’ Paolo Sarpi, quando affermano il primo: “La Bibbia insegna ad andare in cielo e non come è fatto il cielo” e il secondo: “Non si possono incontrare e urtarsi se non quei che camminano per la medesima via; ma quei che vanno per diverse strade, non possono né urtarsi, né incomodarsi. Il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in Cielo, e però [per questa cagione] la religione cammina per via celeste, e il Governo di stato per via mondana, e però non può mai incomodare l’altro” Questa distinzione di piani tra ambiti entrambi importanti e non separati, ma distinti , ma anche questo reciproco arricchirsi di fede e laicità, in passato come oggi presuppone ed implica tuttavia per i credenti come per i non credenti di abbandonare l’arroganza di formule dogmatiche, rigidità ideologiche e zelanti semplificazioni propagandistiche che erigono muri e barriere divisorie e di assumere invece un atteggiamento di onestà intellettuale e di umiltà, sempre consapevole del fatto che il credere e il non credere rientrano nell’ambito di una libera scelta personale. La verità imposta o da imporre è inconciliabile infatti con il rispetto delle identità e della libertà che è loro propria.

La fede religiosa, così come l’atto di incredulità, non sono mai dovuti.

Lo sforzo del comprendere e del comprendersi non può però essere immune dalla crescita delle interrogazioni e dell’ascolto, dall’astenersi da giudizi manichei, dal non assolutizzare le proprie convinzioni nel confronto con gli altri.

In questa prospettiva, su questo terreno di dialogo il confine tra credente e non credente non è mai rigido ed invalicabile, dotato di cippi definitivi, ma apre uno spazio in cui si riconosce la compresenza di fede e di non credenza, di adesione esistenziale e di dubbio. Una compresenza, d’altronde, di cui si trova ampia traccia in alcuni testi biblici, basterebbe ricordare l’esempio del libro di Giobbe, un credente di forza straordinaria, che propone in modi radicali l’eterna domanda sul dolore, sul male e sulla giustizia e che è ripetutamente e drammaticamente attraversato dalle lacerazioni del dubbio e dell’oscurità. Ma negli stessi racconti evangelici si parla di Cristo stesso, che, inchiodato sulla croce, pochi istanti prima di morire viene colto da un sentimento di smarrimento e di dubbio e grida citando il Salmo 22: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

Disse all’Assemblea costituente Concetto Marchesi, che fu Rettore di questo Ateneo: “Ho sempre respinto nella mia coscienza l’ipotesi atea…Dio è nella luce della rivelazione per chi crede, nell’inconoscibile e nell’ignoto per chi non è stato toccato da questo lume di grazia”. Dunque di fronte all’insondabilità del mistero che attraversa ogni vita, ma anche la storia e il cosmo, ogni coscienza che pensi avverte un senso di fragilità e di insufficienza. Ma ciò implica, una volta di più, di prendere sul serio tanto le ragioni del credere quanto quelle dell’incredulità.

Non solo: se si adotta il metodo di ricercare ciò che unisce e non ciò che divide, di reperire gli elementi di convergenza e non di contrapposizione, si può riconoscere che ciò che unisce credente e non credente è precisamente la questione del senso, una base comune che interpella le nostre coscienze e ci induce a sollevare lo sguardo dall’indifferenza e dall’immediatezza di una società che tende sempre di più a ripiegarsi su se stessa e ad appiattirsi sul presente e sull’effimero, per aprirsi invece a interrogazioni più profonde, a confrontarsi con un “oltre” e con un “altrove”, ed infine a non perdere la categoria del futuro e la speranza del futuro. Una speranza che in effetti attraversa tutta l’esperienza e la tradizione dell’ebraismo, nei confronti delle quali la nostra cultura, la nostra civiltà, la nostra stessa vita democratica sono permanentemente debitrici, a partire dal radicamento di quella tradizione nel modello dell’esodo, evento di liberazione dalla schiavitù, trasmesso di generazione in generazione come evento fondativo della stessa identità ebraica e ad un tempo richiamo e paradigma duraturo per tutte le istanze di liberazione da ogni forma di asservimento.

Tutto questo per dire che l’uomo, il credente e il non credente, si alimenta costantemente di dubbi. Ha scritto Norberto Bobbio “se fede laica vuol dire fede nell’uomo, mi domando se questa non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto

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quella religiosa. Allora non resta che il senso del mistero, che può essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge la nostra ragione. Non è forse questo senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini della fede nell’uomo e quelli della fede religiosa?”.

Ciascuno, il credente e il non credente, può rivolgere a Dio un interrogativo: esisti? In questo senso mi piace ricordare quanto sostiene un grande pensatore ebraico, Franz Rosenzweig, secondo cui la domanda relativa all’esistenza di Dio è la domanda per eccellenza. Forse, almeno da un punto di vista esistenziale, Dio esiste solo se lo cerchiamo, indipendentemente dal fatto di trovarlo (cfr. F. Rosenzweig, Dio, norma e mondo, Giuntina).

L’essere umano è caratterizzato da un’interrogazione sorgiva, sia essa religiosa, scientifica, filosofica, poetica, artistica. Per tutti gli uomini questo, dell’interrogare e dell’interrogarsi, è un terreno di impegno comune, il gusto del conoscere e del cercare il non conosciuto.

“Nessuno ha mai visto Dio” dice la Prima Lettera di Giovanni, per riferirsi ad un’assenza che diviene condizione della sua possibile presenza, una necessaria difesa da qualunque indebita riduzione ed entificazione di Dio.

In questo spazio di assenza di Dio, nel senso di una sua non visibilità materiale – ma si può vedere solo con il cuore, osservava il Piccolo Principe di Saint Exupery – possono benissimo convivere sia coloro che hanno Dio nel loro orizzonte, sia coloro che non lo hanno. I dubbi che si ricollegano all’assenza e alla non evidenza di Dio saranno sicuramente di natura diversa: di una fede]fiducia da riconquistare per il credente, di una tensione all’apertura verso l’altro e alla riflessione conseguente per il non credente.

In realtà si può dire che entrambi si interrogano su come vivere, su come la vita vada affrontata per essere vissuta in modo degno. Un’idea, questa, che non potrebbe essere espressa in modo migliore di quanto fece Dietrich Bonhoeffer nel

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luglio del 1944 nella sua cella nel campo di concentramento di Flossenbürg: “Il nostro diventare adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci fa conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio”.

E’ in effetti questa un’affermazione che può apparire forte e sconcertante per gli uomini religiosi, per i quali non è facile capire il “senza Dio” di Bonhoeffer. Ma anche per chi non possiede la fede religiosa è difficile capire il suo contestuale “davanti a Dio”. Qui si apre una serie di interrogativi per collocare il nostro dialogo di oggi nel quadro della complessa situazione culturale che caratterizza le società post]industriali dell’Occidente. Queste società si connotano per la coesistenza di fenomeni tra loro per molti versi conflittuali. Da un lato l’espandersi irreversibile di quel processo di secolarizzazione pronosticato, alla metà degli anni ‘60 del Novecento dal teologo americano Harvey Cox nel famoso volume The secular city. Un processo che ha comportato, in tutti i settori della vita sociale, come pure nel mondo delle idee, la progressiva emancipazione dal pensiero religioso quale postulato della soggettività ed autonomia dell’individuo. Sotto il profilo dello spazio pubblico possiamo in effetti den dire che le società contemporanee dell’Occidente sono entrate in un’epoca “post]religiosa”, cosicché si è venuta generalizzando la massima di Ugo Grozio relativa all’autonomia dei diritti dell’individui anche se ammettessimo che Dio non esistesse (etsi Deus non daretur). Una formula, questa, che può sintetizzare efficacemente il fenomeno contemporaneo della secolarizzazione.

Rispetto a questo panorama di sfondo, l’ultimo scorcio del Novecento ha visto peraltro il forte emergere di fenomeni di segno apparentemente opposto: mi riferisco al cosiddetto “ritorno delle religioni”; un fenomeno di non facile interpretazione anche a causa delle forme molteplici e per lo più sfuggenti con cui si manifesta. Nello smarrimento legato alla crisi delle ideologie e delle grandi

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narrazioni che avevano contrassegnato il Novecento si sono sviluppate tensioni ed orientamenti, individuali e di gruppo, volti ad un recupero della centralità del fatto religioso, ad un ritorno del sacro, non necessariamente vissuto però come un ritorno alle forme religiose tradizionali custodite dalle storiche istituzioni religiose. Un fenomeno in cui confluiscono filoni diversi, da quelli che esprimono istanze di autentico ed equilibrato risveglio religioso, ad altre per lo più connotate da esperienze di rinnovamento carismatico, ad altre ancora non esenti da forme di fondamentalismo, pronte a rivendicare un ruolo egemonico del religioso nella vita civile.

Un terzo fenomeno è certamente dato dal fatto che, anche a causa delle forti tendenze migratorie, il panorama attuale accentua il grande pluralismo delle fedi e delle credenze presenti in uno stesso contesto geografico, fedi e credenze che raramente auspicano di in dialogo tra loro e ancor più raramente riescono a farlo. In effetti, da questo punto di vista non siamo più in presenza di un’univoca idea di Dio, ma diventa legittima la domanda su cosa possa o debba intendersi quando si evoca l’idea di Dio.

In definitiva il contesto rappresentato dal panorama delle società contemporanee con il risveglio dell’interesse per i temi religiosi può per un verso facilitare il dialogo sulla religione, ma per altri aspetti, legati al forte pluralismo delle religioni e delle opinioni, può essere meno chiarificatore e assai più difficile di quanto non fosse in altri contesti storici, caratterizzati da una maggiore semplificazione dei soggetti presenti.