Il VII Sigillo: il silenzio, la ricerca, la morte di Dio

I film, scrisse Fernand Braudel, sono agenti della storia.

Uno in particolare coincide con l’essenza del Cortile dei Gentili. Mi riferisco al Settimo Sigillo (Det Sjunde inseglet) di Ingmar Bergman, realizzato ben sessant’anni fa.

La storia si sviluppa nel XIV secolo. L’Europa è sconvolta dalla peste e il fanatismo ha prevalso sulla religione. Il cavaliere Antonius Block, magnificamente interpretato da Max Von Sidow, di ritorno in patria dalle crociate incontra la Morte in persona.

Quando questa gli si fa avanti per avvolgerlo nel suo manto nero, Block riesce a convincerla ad aspettare, sfidandola agli scacchi.

Si dà così avvio a una partita voluta dal cavaliere per scoprire se, battendo al gioco la morte, avrà salva la vita.

Un particolare non da poco: Von Sidow appare, nel film, col viso sagomato dalle ombre, a ricordare quelle antiche figure nordiche intagliate nel legno, a evocare una sostanza o l’astrazione di un concetto.

Il Settimo Sigillo, nell’Apocalisse di san Giovanni è infranto dall’agnello di Dio rendendo possibile la lettura del libro della vita. Il cavaliere intende scoprire questo: il senso della sua esistenza e, per questo, chiede una dilazione alla morte sfidandola al gioco.

Il tempo che guadagnerà, Block lo impiegherà per compiere un’azione utile, dopo una vita («un vuoto, senza ragione») che egli vede sprecata in facezie, come del resto – dice – quella di tutti.

Ma perché questo film fa corpo unico con il Cortile dei Gentili? Perché il Settimo Sigillo ritrae il terreno del credere e pensare, tra nulla, speranza e sua negazione. Ritrae, insomma, il tortuoso ma necessario percorso della libera ricerca oltre qualsiasi barriera storica (politica?) tra credere e non credere.

Il cavaliere, prima di morire, vuole la certezza fisica dell’esistenza di Dio, squarciandone così il silenzio: «La fede – afferma – è una pena così dolorosa. È come amare qualcuno che è lì fuori al buio e che non si mostra per quanto lo si invochi. […] Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere!». E, ancora, rivolto a una giovane donna condannata al rogo: «voglio incontrare il demonio, voglio parlargli di Dio. Lui sicuramente ne sa più di ogni altro».

E mentre lei arde, lo scudiero del cavaliere (figura capitale, quanto Block) osservandola dice: «Il nulla la sommerge e veglia su di lei […]. Il nostro terrore è uguale al suo. Nessuno [nessun dio, nda] veglia su di lei… è avvolta dal buio delle tenebre… dal buio e dal vuoto del nulla».

Nell’aforisma 125 della Gaia scienza, Friedrich Nietzsche narra di un uomo folle che, accendendo una lanterna nel chiaro del mattino, corre al mercato gridando a squarciagola: «Cerco Dio! Cerco Dio!». Ad ascoltarlo divertiti, altri uomini che in Dio non credono. Tra questi, uno chiede al folle se Dio si sia smarrito o se, per paura, si sia nascosto. Il folle risponde affermando solennemente la morte di Dio, l’assassinio di Dio per mano dell’uomo:

     Dio è morto! Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso! Come possiamo consolarci noi assassini di tutti gli assassini? Ciò che il mondo possedeva di più santo e grande si è dissanguato sotto i nostri coltelli… chi ci toglierà di dosso questo sangue? Con quale acqua potremo lavarci? Quali cerimonie espiatorie, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è la grandezza di questo gesto troppo grande per noi? Non dobbiamo farci dèi noi stessi, anche solo per apparirne degni?

Pronunciate queste terribili parole, il folle riceve gli sguardi attoniti dei presenti e, raccolta la sua lanterna, la scaglia al suolo frantumandola. È allora che si accorge che il suo annuncio giunge troppo presto per gli uomini («il tempo non è ancora venuto», l’«immenso avvenimento è ancora in cammino e va errando»). Gli uomini hanno ucciso Dio, ma non ne hanno preso coscienza.

Il brano rivela la sofferenza profonda di Nietzsche stesso che, condotto dalla ricerca conoscitiva, giunge a constatare la realtà della mancanza di senso: la morte di Dio, del quale lui stesso è l’assassino. È la tragedia della follia del nichilismo, per il quale si può pensare che ogni cosa che è si tramuta in nulla – dunque, diventa nulla e quindi essa è e non è.

Il passo si conclude con il Requiem aeternam Deo intonato dal folle nelle chiese, che egli vede come monumenti funebri, sepolcri di Dio.

Dostoevskij, nell’Adolescente, scrive che vivere senza Dio è soltanto una sofferenza, dunque coloro che non credono sarebbero degli idolatri, non dei senza dio. Riguardo a questa affermazione paradossale e provocatoria, chiediamoci: sarà così? O sarà vero allo stesso modo il contrario? Il cavaliere Block e il suo scudiero sono lì ad accompagnare queste domande. Sono domande come queste che ci permetteranno di costruire una vera nuova laicità, una vera libertà del pensiero che non abbia pregiudizi ad accogliere, cioè a prendere sul serio, sia gli argomenti della negazione sia quelli dell’esistenza di Dio. Senza pregiudizio. Senza timori di apparire creduloni o, viceversa, “eretici” (tra mille virgolette, perché l’eresia è un falso logico). Su questo campo, l’unica libertà è la tormentosa strada percorsa dal cavaliere Block: interrogandosi su Dio, tra fede e sua negazione, egli costruisce la grande libera ricerca al massimo delle sue possibilità. La ricerca vera deve passare attraverso questo difficilissimo percorso, ma non faremo mai neanche un passo in avanti se non ci scrolleremo di dosso il peso di preconcetti oppositivi.

Ho rielaborato questo capitolo del mio libro “Nuovo Umanesimo, Nuova Laicità”, di qualche anno fa. Continuerò su questo tema, così difficile, vasto e anche rischioso. Anticipo quattro temi (più che altro, campi di battaglia): il Grande inquisitore di Dostoevskij, il Lamento di Geremia, l’Antigone di Sofocle e qualcosa che qui abbiamo in qualche modo evocato parlando di un cavaliere e di follia: il Don Chisciotte, capolavoro immortale.

di Vittorio V. Alberti  (FacebookTwitter)