Il grido di libertà delle donne iraniane

Il velo nella storia dell’Islam ha assunto negli anni valenze diverse: è stato simbolo di modernità, quando, nel 1936, sotto lo shah Reza Pahlavi venne imposto alle donne di toglierlo in nome di una modernità non da tutte però condivisa e comunque imposta. Poi è diventato, alla fine degli anni Settanta, simbolo politico della resistenza al regime monarchico dello shah Reza Pahlevi, per diventare poi simbolo religioso, prima, e simbolo di oppressione, subito dopo, quando, con la rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Komehini e la conseguente repressione frutto del suo regime, lo stesso ayatollah ne annuncia l’obbligatorietà per tutte le donne il 6 marzo 1979.

Sono sotto gli occhi di tutti le fortissime repressioni subite anche di recente dalle donne iraniane, che si oppongono all’ennesima imposizione che toglie loro la libertà di scegliere. Più di 200 morti, tra cui anche alcuni minorenni e migliaia di persone incriminate non hanno però fermato e non fermano la forza dilagante delle proteste che si sono estese, non solo in Iran, in molte categorie lavorative e in molti ordini professionali come nelle scuole, ma l’onda di protesta si è propagata in moltissime capitali europee e un po’ ovunque nel mondo.

La morte di Mahsa Amini, ragazza del Kurdistan iraniano in vacanza a Teheran con la sua famiglia, avvenuta sotto custodia della polizia morale, che l’aveva fermata il 13 settembre, per aver indossato in modo inappropriato il velo, non ha fatto che inasprire le proteste che si sono esplicitate con il taglio di ciocche di capelli da parte di molte donne iraniane. Gesto ripreso in segno di vicinanza e solidarietà in tutto il mondo. Tagliarsi i capelli infatti è stato un gesto che ha contagiato migliaia di donne, ma anche di uomini, in moltissimi Paesi. Un’azione apparentemente semplice che nasconde però un significato profondo per la cultura iraniana che ricorda una antica cerimonia locale che significa “lutto”. Si tratta infatti di una pratica messa in atto durante eventi tristi per simboleggiare rabbia e sconforto. Un gesto che proprio per la sua immediatezza e il suo significato ha subito travalicato ogni confine superando barriere linguistiche e culturali.

Le proteste si sono propagate dalla provincia del Kurdistan a più di 80 località sparse nel Paese. La manifestazione più importante dalla rivoluzione del 1979. L’uso di gas lacrimogeni fino a quello di pistole con proiettili di metallo sparati indistintamente sui dimostranti, uomini e donne, hanno segnato un’escalation nella repressione messa in atto dalla Repubblica islamica. Ma è stata anche un’ulteriore molla per i numerosissimi attivisti sparsi in tutto il mondo che hanno raccolto il grido di libertà delle donne iraniane facendolo proprio. In 80 mila sono scesi in piazza a Berlino, così come a Tokyo sono stati numerosissimi a manifestare per i diritti delle donne iraniane e non solo, e così a Roma come a Strasburgo, a Parigi come a Madrid e ancora a Zurigo e Berna e a Toronto, un’eco che è arrivata fino a Melbourne. Neanche l’oscuramento parziale di Internet, messo in atto dal regime, ha potuto silenziare la loro protesta. Grazie all’impiego dei social media l’eco delle donne iraniane ha continuato a propagarsi inesorabilmente portando con sé tutto il dolore ma anche la forza e la voglia di questo popolo di vivere liberamente. Amnesty International, che da anni denuncia la violazione dei diritti umani in Iran, in merito alle recenti repressioni ha raccolto prove sull’uso illegale della forza durante le manifestazioni che hanno portato a più di 300 morti di cui decine di minorenni, sugli arresti indiscriminati (circa 15 mila persone arrestate dalle manifestazioni di metà settembre), sulla pratica della tortura e sulle morti seguite agli arresti.

A due mesi dalla morte di Mahsa Amini le proteste in Iran non accennano ancora a diminuire, anzi, dopo gli attacchi armati sulla folla, la rabbia aumenta anche per la recente uccisione del piccolo Kian, bimbo di 10 anni colpito a morte mentre si trovava con il padre in auto a Izeh, nell’ovest dell’Iran. Le donne in strada continuano a tagliarsi ciocche di capelli o a bruciare i loro hijab, e da parte sua il Governo continua a mettere in atto brutali repressioni e arresti (tra cui anche 51 giornalisti). Migliaia le incriminazioni per offesa a Dio da parte del tribunale rivoluzionario islamico (mille nuove incriminazioni solo nell’area di Teheran a fine ottobre), a cui sono seguiti altrettanti processi sommari. Tra le persone incriminate anche l’artista rapper Saman Yasin, accusato di avere supportato alcune manifestazioni. Anche l’Onu è recentemente intervenuto per esortare le autorità iraniane a “interrompere l’uso della pena di morte come strumento per reprimere le proteste”, ribadendo “l’appello a rilasciare tutti i manifestanti che sono stati arbitrariamente privati della loro libertà”. Tanti gli appelli, come quello del grande pianista Ramin Bahrami, che si è rivolto ai leader politici e al Santo Padre affinché sostengano apertamente la protesta popolare contro il regime. E proprio di recente Papa Francesco, di ritorno dal suo viaggio in Barhein, si era pronunciato così a proposito della rivolta in Iran: “Dio non ha creato l’uomo e poi gli ha dato un cagnolino per divertirsi. Una società che non è capace di mettere la donna al suo posto non va avanti. Il maschilismo uccide la società”.

La global connectivity creata dal popolo iraniano rappresenta il potere di un’idea di libertà che è ben più forte di qualsiasi brutale repressione. “Donna, vita, libertà”. “Zan, zendegi, azadi” è lo slogan urlato dalle manifestanti iraniane. Tre parole così semplici e così fortemente connesse tra loro da rappresentare quasi un’unica parola, un monito, il segno di una rivoluzione sociale che parte, ancora una volta, dal coraggio delle donne.