Il greco del «presbýteros»

da “Il Sole 24 Ore” – 8 aprile 2018 – di Gianfranco Ravasi.

«Quali dovrebbero essere i modelli (typoi) inerenti alla teologia?». Con questa domanda Platone nella Repubblica (n. 379a) coniava il vocabolo theologhía come investigazione sulle forme di manifestazione del divino. Il suo discepolo Aristotele non esiterà a collocarla nella sua Metafisica (n. 1026a) al vertice del triangolo delle «filosofie teoretiche», in compagnia della matematica e della fisica. Da allora questa parola vivrà un’avventura millenaria incessante con picchi e abissi, acclamata e calpestata, formalizzata in statuti eccelsi del sapere ed equivocata in stravaganze irrazionali. In realtà, nelle antiche culture di varie civiltà era spesso apparsa inizialmente come teodicea, simile a un fiore incandescente sbocciato nei terreni arroventati del male, ossia come «giustificazione di Dio per il male presente nel creato», per usare la definizione di Leibniz nel suo Saggio di teodicea sulla bontà di Dio.
Non abbiamo, però, intenzione di avviarci nella navigazione ardua, esaltante e tempestosa (l’immagine è di un genio teologico come s. Agostino) della teologia, ma di procedere lungo un percorso più circoscritto, affidandoci a quella realtà «teandrica», cioè umano-divina, che è la parola. Essa è, infatti, il Logos che l’evangelista Giovanni pone «in principio» presso Dio, anzi, in Dio (si legga quel capolavoro che è il prologo del quarto Vangelo), sulla scia dell’«in principio» dell’intera Bibbia: «Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi 1,3). Ma è anche la parola della tribù umana, per usare una locuzione di Mallarmé che ne cercava il «senso più puro». La parola è «un essere vivente» (Victor Hugo), ma può anche decadere nella vanità di «Words, words, words» dell’Amleto shakespeariano.
Noi vorremmo, ora, isolare una sequenza di parole «teologiche» o, più genericamente, religiose che abbiamo infilato come in una collana leggendo nientemeno che un Dizionarietto di greco. Potrebbe sembrare una stramberia: essa si lega a un ricordo personale quando da ragazzo scorrevo pagine e pagine del Nuovissimo Melzi, il dizionario in due volumi («linguistico» e «scientifico»), dono di una mia zia insegnante. Più tardi avrei scoperto che anche Umberto Eco era stato affascinato da quel vocabolario, mentre il cardinale Carlo M. Martini aveva confessato che proprio le pagine di un dizionario erano la lettura privilegiata della sua adolescenza. Il Dizionarietto che abbiamo ora letto in ogni suo lemma è, però, ben diverso. Ogni voce è quasi un racconto, ritmato su uno spettro multicolore ove l’etimologia s’intreccia con le citazioni, la storia colta va a braccetto con quella popolare (si provi a leggere la voce «aforisma»).
Due grecisti di qualità, Paolo Cesaretti che è soprattutto un bizantinista dell’università di Bergamo, ed Edi Minguzzi della Statale di Milano, che nei suoi scritti non disdegna anche la pratica della didattica di base, vogliono svelare attraverso 400 parole circa (in realtà quelle più «scavate» sono poco più di 200) quanto l’universo linguistico greco sia stato l’arsenale concettuale della nostra lingua. Un serbatoio a cui non si è attinto solo in passato, come appare nei due estremi del Dizionarietto – «Accademia» e «Zoologia» –, ma anche nella modernità, ad esempio con «psicoanalisi», «economia», «cibernetica», e con la riviviscenza dell’infame «xenofobia». Noi, però, ci siamo soffermati solo sulle parole teologico-religiose. Si tratta di un vero trionfo lessicale: ne abbiamo contate almeno 63 senza i derivati, quindi circa un terzo delle 200 voci trattate più ampiamente.
A questo punto basta tuffarsi in quel piccolo mare di vocaboli che ha come prima sponda alfabetica una parola che ha annodato attorno a sé tutti i precetti dell’etica cristiana, agápe, «amore». Essa travalica il più comune eros classico, pure presente in questo lessico col rilievo che gli compete, soprattutto nel rimando platonico. L’agápe è amore di donazione che infrange i confini del puro dovere, della stessa reciprocità fino a giungere al perdono e all’abbraccio del nemico. L’apostolo Paolo ha intessuto su di esso un inno stupendo nel capitolo 13 della Prima Lettera ai Corinzi. Il termine acquisterà, poi, anche una connotazione realistica quando verrà applicato al convito fraterno ecclesiale, al cui interno si poteva celebrare il rito cristiano per eccellenza, l’«eucaristia», parola che ha naturalmente una sua presenza esplicativa nel dizionario. Tra l’altro, si annota giustamente che il fondatore del pragmatismo e precursore della semiotica, il filosofo statunitense Charles S. Peirce (1839-1914), aveva coniato il vocabolo «agapismo» per definire il processo di sviluppo dell’umanità promosso dalla legge dell’agápe-amore universale.
L’altra sponda estrema alfabetica di questo mare lessicale è affidata a una parola cristiana decisiva, Vangelo, in greco «buona notizia», un termine già noto a Omero. Ma ad esso segue per ultimo il vocabolo vescovo che nella sua matrice greca significa «sovrintendente, ispettore», tant’è vero che nelle sue Leggi Platone lo assegna ai custodi del diritto pubblico. C’è, comunque, da sottolineare che nell’epistolario paolino l’epískopos non corrisponde pienamente al «vescovo» della successiva tradizione cristiana che lo connetterà al collegio degli apostoli. Naturalmente tra questi due estremi si dispiega un arcobaleno di vocaboli che reggono l’intera esperienza cristiana, dai lemmi capitali come Bibbia, Cristo, apostoli, Chiesa, cattolico, battesimo, eucaristia, liturgia, profeta e così via, fino a quelli molto più specifici e tipici del linguaggio ecclesiale, come apologia, ascesi, catarsi, chierico, clero, prete, diacono, laico, diocesi, ecumenico, enciclica, eresia, ermeneutica, escatologia, estasi, gnosi, logos, mistero, monaco, Paraclito, scisma, sinodo e altro ancora.
Il fascino di questo Dizionarietto sta nella sua capacità di allargarsi alla storia delle parole che dalla loro genesi etimologica si sono rivestite di accezioni e di vicende diverse e talora sorprendenti. Facciamo un solo esempio a caso attraverso il vocabolo più «clericale» comune («clero» ovviamente ha una sua curiosa radice greca qui considerata), prete. Come è noto, deriva da presbýteros, l’«anziano» che è «venerabile» e persino «ambasciatore». Ora, Cesaretti e Minguzzi rincorrono anche la deriva mitica subita dal vocabolo nell’affabulazione medievale, introducendo la figura del «Prete Gianni», sovrano di un ignoto reame orientale che, stando alla poetica del «Ciclo Bretone», custodiva il Sacro Graal, il miracoloso calice dell’Ultima Cena di Gesù (come non ricordare, allora, il Parsifal di Wagner?).

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