«Évangiles», quattro teatri della parola

da Il Sole 24 Ore – 26 febbraio 2023 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone un’analisi della traduzione dei Vangeli di Frédéric Boyer.

Campeggia ancora nella mia biblioteca, sopravvissuta a traslochi e ad auto-alienazioni di volumi: sembra un Messale old style, in carta india, e sorregge qualcosa come 3.186 pagine (più un fascicolo di fogli bianchi). È La Bible. Nouvelle traduction che mi era stata inviata nel 2001 da Montréal dalla Médiaspaul, coeditrice del volume con la parigina Bayard. Qual era l’originalità di questa ennesima «nuova traduzione»? Lo spiegava il curatore, lo scrittore Frédéric Boyer, nato a Cannes nel 1961: «Ognuno dei 73 libri della Bibbia (Biblia in greco è un plurale, «i libri») è stato affidato a un esegeta e a uno scrittore, così che questa coppia di traduttori ricreasse, attraverso un’interazione reciproca di competenze, la duplicità di un testo che è religioso e letterario». Convocati erano stati 20 scrittori e 27 esegeti.

Già nel 1936 il poeta Paul Claudel lamentava, da un lato, che «purtroppo le Bibbie in versione francese ci danno solo trascrizioni povere e piatte, senza risonanze e senza poesia» e, d’altro lato, che «i cattolici di conseguenza mostrano grande rispetto verso la Bibbia standone il più lontano possibile». Ho, così, ripreso a sfogliare questo mastodontico tomo alla scoperta di alcune rese che si prendessero carico della polifonia di Scritture così diverse e antiche, non di rado dal dettato misterioso, evocativo, simbolico, oppure oscuro e inceppato. Ho provato talora autentici godimenti, soprattutto nei testi poetici anticotestamentari (Giobbe o i Salmi o il Cantico dei cantici), altre volte qualche sussulto su opzioni discutibili, ma anche sorprese nell’eco inattesa che lascia dietro di sé la traduzione dei Vangeli.

Un’esperienza, comunque, affascinante, verificabile anche nei frammenti testuali celebri come l’«in principio» assoluto della Genesi che affido ai lettori amanti di questa lingua nostra sorella. Si tratta di due versetti scanditi in versione con gli «a capo» poetici: «Premiers / Dieu crée ciel et terre / terre vide solitude / noir au-dessus des fonds / souffle de Dieu / mouvements au-dessus des eaux» (1,1-2). Opzioni originali, eppure capaci di lasciar balenare in filigrana la polimorfia semantica della matrice ebraica. Mi fermo qui, vincendo la tentazione di altre trasparenze e stupendomi dello scarso esito che ebbe questa esperienza esegetico-letteraria, forse ancora provocatrice per le orecchie assuefatte agli standard delle versioni liturgiche.

Qualche sporadico tentativo analogo era apparso anche da noi: ad esempio, penso al Vangelo di Giovanni tradotto da Massimo Bontempelli e anche da Salvatore Quasimodo. Ebbene, questa mia lunga evocazione di quell’ormai lontana Bibbia francese è stata sollecitata da un altro volume da poco edito che vede protagonista lo stesso curatore di allora, Frédéric Boyer. Egli si è cimentato in solitaria nella traduzione dei Vangeli, considerandone soprattutto la loro qualità letteraria. Vorrei lasciare la parola a lui stesso quando nell’introduzione delinea il suo programma.

«Mi sono interrogato, traducendo, sulla modalità espressiva di questi testi fondatori, sul linguaggio e sulle forme letterarie che essi mettevano in atto. Ho voluto far comprendere la nascita di un linguaggio, con le sue ripetizioni, le sue variazioni di termini, le sue figure. Mostrare che la messa in scritto degli insegnamenti e della vita pubblica di un rabbì galileo del I secolo è divenuta una formidabile questione di linguaggio». Anzi, egli considera il racconto evangelico come «un teatro della parola» e lo trasfigura anche graficamente con gli «a capo» destinati a scandire il ritmo delle frasi e a rendere i Vangeli quasi una sorta di epopea.

A questo punto vorremmo allegare un’interessante, anche se un po’ sovraccarica, proposta che rimanda intenzionalmente a un altro genere che Piero Boitani ha definito in modo creativo «Ri-Scritture». A riproporcelo è una docente torinese Maria Nisii, che ne individua la genesi già nelle stesse Scritture (si pensi alle riletture dell’esodo dall’Egitto in Isaia, Sapienza, Apocalisse), nel giudaismo e così via, ma che dilaga nella successiva letteratura. Al riguardo si potrebbe creare un vero e proprio «canone» sterminato.

È facile evocare la famosa Mimesis di Auerbach che identificava negli archetipi di Ulisse e di Abramo un modello incessantemente replicato secondo iridescenze sempre mutevoli e nuove. Il tentativo della studiosa è quello di isolare una sorta di grammatica generale della «Ri-Scrittura», delineandone le regole, le modalità, le finalità. Le pagine risultano, perciò, tutte intarsiate di riferimenti concreti, in particolare alla letteratura contemporanea: tanto per esemplificare, da Bacchelli e Bernanos, da Veronesi a Tournier, da Pasolini a Pomilio, da Carrère a De Luca, da Calasso a Saramago e molti altri.

I fronti aperti sono molteplici e forse si sarebbero potuti meglio ordinare, ma l’abbondanza dei materiali non solo permette una panoramica sul tema, ma offre al lettore la possibilità di ricomporre un suo quadro con finalità anche catechetico-pastorali. In esso, persino secondo tipologie critiche (si pensi, ad esempio, alla rilettura di Giobbe da parte di Jung o al Vangelo di Saramago), si riuscirà a riscoprire il contrappunto fecondo tra l’orizzonte teologico e quello letterario. Si riconfermerà, comunque, l’instancabile presenza della Bibbia (soprattutto dei Vangeli) nel respiro spirituale e culturale dell’Occidente.