Radici, interculturalità e ricerca di solitudine

Intervista di Paolo Bricco.

Pasqua di resurrezione e Pasqua di dolore. «Sono nato nel 1942. L’Europa era striata di sangue. Hitler e Stalin si comportavano come due imperatori. Oggi è tornata la guerra. Anche se il fronte è lontano da noi, laggiù, in Ucraina. Per 70 anni l’Europa ha tenuto distante da sé la morte e la distruzione. Non è più così. Allora un sudario la ricopriva tutta. L’atmosfera era di terrore. In Brianza, la mia famiglia si era trasferita da Merate a Santa Maria Hoè, un piccolo paese in collina. Mia madre Marcella era una insegnante delle elementari che teneva sempre un libro in mano. Mio padre Paolo non aveva mai preso la tessera del Partito nazionale fascista e, per questo, non aveva mai avuto un lavoro fisso. Io avevo due anni. Ho un unico ricordo nitido di allora: una sera dalla finestra nella casa dei nonni materni osservo la pianura e vedo salire in cielo il rosso delle fiamme di Milano che va a fuoco».

In Via della Conciliazione, a Roma, Gianfranco Ravasi cammina veloce nel tratto di strada che ci separa dagli uffici del Cortile dei Gentili, l’istituzione che ha fondato nel 2011 per intensificare il dialogo fra i credenti e i non credenti, e Santa Marta, dove stiamo andando a pranzo.

La cultura e la forza, la profondità e lo stile del cardinale permeano di solito gli argomenti spirituali e culturali, in un tutto unico di narrazione e interpretazione. Ma lui ha un controllo millimetrico della parola, la naturale capacità di riempirla di energia e il talento di costruire racconti sulla vita propria e sulle vite degli altri. «Non ho mai pensato di potere essere uno scrittore. Io sono conquistato da quello che non ho: la genialità. Uso spesso le citazioni. Non solo bibliche. Ma anche letterarie, storiche, filosofiche. E, in questo, sono aiutato dalla mia memoria. L’analisi critica del testo è il mio primo amore. La mia dimensione è quella della impostazione delle domande. E della costruzione di risposte aperte. Mi piace molto la poesia “Sotto una piccola stella” di Wisława Szymborska: “Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte”. Non ho mai creduto di potere costruire una mia architettura».

Ravasi viene fermato ogni 30 metri. La prima volta da due ragazzi della diocesi di Milano. Una seconda da un religioso tedesco appena arrivato a Roma per un incarico culturale. Una terza volta da un vescovo che gli vuole regalare il suo ultimo libro, nella naturale vicinanza che si instaura tra chi scrive (l’ultimo libro di Ravasi è Tre. Divina aritmetica, un divertissement sul numero tre appena pubblicato dal Mulino). Una quarta volta è fermato da chi lo vuole invitare a una conferenza: «Non ho mai provato la noia e l’isolamento. Ma, purtroppo, non riesco ad avere la solitudine. Per me è molto importante il periodo che trascorro in estate a Bellagio, sul lago di Como, con le cime delle Grigne davanti alla casa delle mie sorelle Maria Teresa e Annamaria. Mi capita di sentirmi assaltato dalla realtà. Ogni giorno ricevo in media tre inviti: dalla conferenza nella parrocchia alla partecipazione a una processione, al congresso internazionale per specialisti. Un giorno ne ho ricevuti otto. Non è sempre facile. Qualche volta mi manca il fiato».

Entriamo nella residenza di Santa Marta. Aspettiamo che aprano la mensa all’una in punto. Tre suore di Spello, il borgo medievale in Umbria, riconoscono Ravasi. Dall’ascensore esce Papa Francesco, molto sorridente. Bergoglio, che pochi giorni dopo sarebbe stato ricoverato in ospedale per poi ristabilirsi in fretta, si avvicina, saluta Ravasi e le suore che lo stavano aspettando. Noi ci allontaniamo per discrezione ed entriamo nel refettorio di Santa Marta.

La sala è molto grande e ben illuminata. I tavoli sono assegnati. Esiste un ampio buffet di verdure e di piatti freddi a cui ci si può servire da soli. Ci sediamo. Ravasi racconta: «Durante il conclave, in una pausa io e lui ci siamo messi a parlare. Eravamo così presi dalla nostra discussione che non ci siamo accorti che dovevamo partecipare alla successiva votazione. Ci sono venuti a cercare. Non ci trovavano. Dovevamo rientrare. Mancavamo soltanto noi. E, a quel punto, Bergoglio è stato eletto. Sorridiamo ancora di quell’episodio».

Vengono i camerieri di Santa Marta. «Questa è una mensa – spiega Ravasi – dove ogni giorno c’è soltanto il menù fisso. Servono loro quello che è stato preparato in cucina». Sul tavolo c’è una bottiglia di Vernaccia di San Gimignano. Come antipasto viene portato un piatto di salmone, molto buono. Ravasi ha avuto una vita segnata dalla linearità: prima studente («ginnasio e liceo classico nel seminario di Venegono Inferiore, solitario come una abbazia, disperso fra i boschi, come lo aveva voluto il cardinale Schuster»), poi docente, quindi Prefetto della Pinacoteca-Biblioteca Ambrosiana, infine presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra dal 2007 con papa Benedetto XVI e con Papa Francesco, fino alla scadenza naturale del mandato, nel 2022. Come primo viene servito un piatto di pasta con le verdure, molto delicato. «Questa linearità – nota Ravasi – ha contribuito alla serenità di fondo della mia vita. Non ho mai fatto psicanalisi o psicoterapia. Ho sempre trovato risorse nella fede, nella cultura e nelle relazioni. Ho vissuto naturalmente molti momenti di crisi. Come diceva il cardinale Carlo Maria Martini: “Tante volte sconfiniamo e ci troviamo sotto un cielo privo di divinità”. La cultura occidentale tende a dimostrare. La cultura biblica tende a mostrare. E, nel mostrare, sono insite l’epifania, la mutazione, il dolore e la crisi».

Il secondo è un piatto abbondante di vitello con verdure. «Per me l’attività culturale, sia specialistica sia divulgativa, rappresenta un pezzo della mia identità spirituale e della mia missione pastorale. Un pezzo non scisso, ma integrato con la mia vita di prete. Mentre studiavo a Roma alla Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico era forte lo spirito di riappropriazione da parte dei credenti dei testi sacri, infuso nelle parrocchie, nelle associazioni e nelle comunità dal Concilio Vaticano II, che si era svolto fra il 1962 e il 1965. Io ero timido. Allora iniziai ad andare a parlare in giro. In tanti chiedevano di capire e di conoscere. Roma era una città dura, pasoliniana. A Tor Pignattara, le strade non erano asfaltate. Un anziano malato mi aspettava in una casa modesta. Con grande dignità disponeva un vassoio sul tavolo, lo adornava con del pizzo e mi offriva il caffè. Quando, nel giugno del 1969, rientrai a Milano e lo andai a salutare. Lui mi disse: “Lei non sa la tristezza di non avere più nessuno da aspettare”».

Il problema della solitudine – non cercata come spazio di “dieta dell’anima”, ma forzata e piena di fantasmi – degli esseri umani è una condizione comune a tutta l’umanità: «Ha ragione Nabokov, quando scrive che “la solitudine è il campo di gioco di Satana”. Io sono stato fortunato perché con la mia attività culturale ho incontrato persone con cui ho sviluppato rapporti di conoscenza e in qualche caso di amicizia. Penso a Noam Chomsky, conosciuto per una discussione sulla sintassi del cervello, e a Abraham Yehoshua, incontrato in un dialogo su Giobbe, il dolore e il volto di Dio. E, tra le amicizie femminili che ho sempre tanto apprezzato, Lalla Romano, la grande scrittrice proustiana oggi dimenticata, e Alda Merini, che dopo avere trascorso ore e ore al telefono con me un giorno mi invitò a casa, sui Navigli, coprendo il disordine con i fiori e accogliendomi lei al pianoforte, con due suoi amici uno al violino e uno che cantava. Allo stesso modo, mi è stato molto utile rientrare per lungo tempo, ogni fine settimana, in parrocchia a Osnago, in Brianza, per dire messa e per fare le confessioni ai fedeli. Con le persone più anziane parlo ancora in dialetto lombardo, che ho appreso quando ero piccolo dai miei genitori e dai miei nonni nella versione lecchese e che poi ho affinato studiando le poesie in milanese di Carlo Porta».

Intanto, a tavola qui a Santa Marta viene servita una torta al gelato di crema, vaniglia e scaglie di cioccolato. Il lavoro culturale e spirituale di Ravasi opera in una continua dimensione insieme meta-temporale e di immedesimazione nel presente. La storicizzazione degli autori, il dialogo intertestuale dei testi teorizzato da T.S. Eliot, il problema del canone occidentale ipotizzato da Harold Bloom, l’afflato e il vacillare della fede nella quotidianità, la dimensione acuta e concreta del dolore individuale e collettivo sono tutti elementi che compongono un quadro di estrema complessità che, a sua volta, entra in rapporto con le ultime tendenze della contemporaneità. «A mio avviso resta valida la domanda di Agostino: tu quis es? Tu chi sei? Oggi, però, con la teoria del gender l’io pensa di potersi autoporre. È sempre più difficile il dialogo in una realtà fluida, vischiosa e conflittuale. Lo vedo con il Cortile dei Gentili. Il multiculturalismo non ha funzionato. Il politeismo dei valori ha portato al sincretismo o al fondamentalismo. Io credo nell’interculturalismo. Non può esserci sempre il duello. Il duello è cosa diversa dal duetto, che è preferibile dal punto di vista culturale, spirituale e umano», dice Ravasi. E, mentre ci salutiamo sulla soglia di Santa Marta, la citazione dell’interculturalismo e il richiamo del duetto mi fanno ricordare un aforisma della sua amica Alda Merini disperata, tenera e sempre in ricerca – come tutti gli esseri umani – di amore, completezza e resurrezione: «Ci si abbraccia per ritrovarsi interi».

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