Come il Coronavirus cambierà le grandi città

La pandemia del Covid-19 continua ancora oggi a mettere in discussione ogni aspetto del nostro vivere quotidiano, lasciando nelle nostre mani un’eredità che trasformerà radicalmente la nostra vita di tutti i giorni. Non si parla solo di rimodulare le relazioni sociali, ma anche gli spazi condivisi che frequentiamo per lavoro e i luoghi in cui viviamo. In un contesto in cui l’urbanizzazione dei Paesi in via di sviluppo, l’iper-connessione delle economie e il cambiamento climatico sono questioni e problemi sempre più attuali, è necessario immaginare le città e il modo di viverle con parametri totalmente diversi da quelli finora contemplati, per essere preparati in futuro a un’emergenza simile a quella che stiamo vivendo e che, ad oggi, non siamo in grado di scongiurare.

Nulla sarà come prima a partire dalle città, luoghi di incontro tra persone, culture, economie, realtà però già in crisi da tempo per la graduale scomparsa dell’equilibrio tra uomo e natura. L’avvento della pandemia da Covid-19 non ha fatto altro che far emergere quanto sia necessario un cambiamento del nostro habitat. Le metropoli più popolose si sono rivelate veri e propri epicentri della pandemia in quasi tutto l’Occidente. Ecco perché dovrebbero essere il luogo ideale dove sperimentare i modelli di coesistenza.

Il Covid-19 ci ha dato l’opportunità di ripensare il concetto di città, di luogo pubblico, di spazio da dedicare al lavoro e alla propria vita privata. E il pensiero degli esperti si focalizza su un progetto a lungo termine fatto di cura e attenzione per gli spazi cittadini, capace di innescare una vera e propria rivoluzione urbanistica, in cui le grandi città del futuro saranno più in sintonia con l’ambiente naturale circostante. La volontà è quella di mettere al centro di tutto la società, le persone fisiche che avranno il compito di prendersi cura dei luoghi in cui vivono e che condividono.

Secondo Brooks Rainwater, direttore della National League of Cities, il Coronavirus ha segnato il riscatto delle piazze e delle vie pedonali; tra i primi effetti prodotti dall’adozione del distanziamento sociale come stile di vita, vedremo un ampliamento dei marciapiedi e la chiusura ai veicoli di alcune strade per agevolare il traffico pedonale. Non a caso, già da ora città come Philadelphia e New York stanno rendendo pedonali strade che non lo erano in modo da dare più spazio ai pedoni, ed evitare che si affollino i parchi.

Per quanto riguarda i trasporti, per molto tempo ancora le persone che potranno permetterselo tenderanno ad evitarli, a favore dell’intimità e dell’igiene di mezzi privati. Una tendenza che impatterà negativamente anche sul fenomeno del car pooling e dell’e-scooter.

Nella visione di Stefano Boeri, architetto e urbanista di fama mondiale, le città del futuro sopravvivranno se saranno progettate per essere vissute all’esterno. Le attività che erano solite svolgersi al chiuso – teatri, cinema, locali, negozi – dovrebbero proiettarsi fuori, dove l’aria circola e il rischio di contagio è minore, magari con l’ausilio di dehors e spazi riscaldati. Ancora l’architetto prevede che le aree metropolitane “adottino” i piccoli centri oggi spopolati, riqualificandoli e dotandoli di infrastrutture digitali che consentano a chi lavora nelle città di trasferirsi lì grazie alla possibilità dello smart working.

L’urbanista Brent Toderian, invece, ritiene che le città si debbano ripensare sul modello “15-minute neighbourhood”, ovvero il quartiere dei 20 minuti. Partito da Portland, negli Stati Uniti, si sta già facendo strada nella pianificazione strategica delle città sia in Australia che nel Regno Unito, e consiste nella creazione di zone che assicurino ai residenti di avere entro un raggio di venti minuti a piedi da casa tutto ciò di cui c’è bisogno per vivere, per lavorare, per divertirsi. Un progetto che porterebbe benefici anche in termini ecologici, senza dubbio.

Anche Papa Francesco ha intercettato da tempo la necessità di una rivoluzione “urbanistica” necessaria per progettare le città del futuro e, a distanza di cinque anni, le parole della sua Enciclica dell’Ambiente risuonano ancora più attuali ora che la pandemia ci ha messo davanti a un cambio di marcia inevitabile. Il Pontefice è stato forse il primo a centrare un punto focale, ossia che l’uomo ha bisogno di un’ “ecologia integrale”, dove con il termine “ecologia” viene indicato un approccio profondo a tutti i sistemi complessi (compreso lo sviluppo delle città) con l’obiettivo di evitare di sprofondare in una spirale di autodistruzione, che – alla luce della minaccia pandemica – sembra divenuta una prospettiva non più fantasiosa. La soluzione, quindi, è tutta nell’obbligo morale di ristabilire una connessione tra grandi aree urbane e aree marginali come paesi e piccoli borghi ristabilendo l’equilibro originario tra l’uomo e la Natura.