Ascoltiamo tutti il rabbino

da “Il Sole 24 Ore” – 9 ottobre 2016 – di Gianfranco Ravasi.

 

Anche la stampa generalista si è interessata alla pubblicazione integrale in versione italiana del Talmud (letteralmente “studio”), il grande monumento delle tradizioni ebraiche soprattutto di taglio giuridico, a cura della Giuntina. E un vero e proprio successo editoriale è stato l’avvio, lo scorso aprile, con la proposta del primo volume dedicato al non facile Rosh haShanà, il “capodanno”, ottavo trattato del secondo ordine della Mishnah (“ripetizione, insegnamento”) che è la base del Talmud. Veramente lontano è quel 17 giugno 1242 quando a Parigi era iniziata un’infame prassi secolare, quella del rogo dei testi talmudici, conclusa – si spera per sempre – con l’imponente campagna incendiaria nazista del 1933. Ora, invece, nonostante i rigurgiti antisemiti sempre in agguato, l’attenzione nei confronti del mondo culturale e spirituale giudaico è vivace: non per nulla, subito dopo il citato primo tomo dell’edizione italiana, è apparsa la Storia del Talmud di Harry Freedman. Molteplici sono, poi, le incursioni in angoli suggestivi del panorama sterminato della cultura giudaica.

Noi pure vorremmo proporre un duplice percorso molto limitato lungo sentieri più secondari e meno battuti. Partiamo innanzitutto per un ideale viaggio verso Volozhin, un villaggio lituano posto prima sotto bandiera polacca e poi sotto il dominio russo e attualmente situato nel territorio della Bielorussia. Là era nato nel 1759, là era sempre vissuto e morto nel 1821 un rabbì che fu semplicemente denominato Hajjim di Volozhin dai discepoli della sua jeshivà talmudica, una scuola-modello dell’insegnamento della Bibbia e del Talmud. È nota l’ironia con cui gli stessi Ebrei bollano la loro tendenza a frantumarsi in correnti in permanente disputa tra loro. Così era accaduto anche allora, soprattutto col sorgere del movimento dei Chassidim, resi poi popolari dagli scritti del filosofo Martin Buber a loro dedicati. Hajjim era in alternativa rispetto ad essi, ma non volle mai accendere la polemica fino allo scontro. Si accontentò, invece, di risalire alla grande tradizione giudaica, ai suoi valori che avevano alimentato le famose correnti mistiche, soprattutto della Kabbalah.

Nacque, così, la sua opera, edita postuma nel 1824 e intitolata Nefesh ha-hajjim, letteralmente “L’anima della vita”, ma passibile anche della resa allusiva “L’anima di Hajjim”. Un monaco della comunità di Bose, Alberto Mello, ha voluto tradurre dall’ebraico il primo dei quattro “portici” in cui è articolato simbolicamente lo scritto: qui è protagonista l’uomo come immagine di Dio e anima del mondo. La riflessione è distribuita in ventidue capitoli, tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, che sono anche alla base della numerazione della sequenza. Procedere nella lettura non è facile, perché il sistema mentale è di taglio allegorico e impressionistico e costringe a un procedimento fluido e mobile. Le digressioni – che l’autore incastona spesso nella sua analisi – sono simili a ramificazioni che si dilatano ben oltre il tronco tematico principale, centrato sulla triplice psicologia umana così come è articolata dalla tradizione giudaica, sulla molteplicità dei mondi in cui noi siamo inseriti e sulla radice dell’anima che reca in sé i riflessi e le scintille dell’Infinito divino.

Solo per rendere l’idea di questo processo esegetico, ecco alcune righe dell’interpretazione del celebre passo di Genesi (1,26-27) sull’uomo “immagine” e “somiglianza” di Dio: «Le parole “immagine” e “somiglianza” non vanno prese alla lettera …Sono piuttosto da interpretare come una somiglianza sotto un certo aspetto, come dice il Salmista: Somiglio al pellicano nel deserto. Questo non vuol dire che avesse le ali o il becco; o che il suo aspetto si fosse trasformato in quello di un pellicano. Semplicemente, nel suo modo di essere, appariva errante e ramingo di luogo in luogo … Allo stesso modo il concetto di “immagine” significa che Dio e uomo sono somiglianti solo per qualche aspetto». Da qui ci si inoltra nell’avventura della conoscenza di quel microcosmo che è la creatura umana, segnata dai bagliori del divino.

Ci avviciniamo, invece, ai nostri giorni con un altro rabbino più noto, Moshe Greenberg, nato a Philadelphia nel 1928, ove fu docente universitario, ma che a metà della su vita sentì l’attrazione della terra dei padri trasferendosi a Gerusalemme ove visse ultimi quarant’anni, e là morì nel 2010. È ancora il monaco Alberto Mello ad allestire un’antologia molto suggestiva di saggi che questo teologo giudaico ha distribuito nel tempo, ponendoli sotto il titolo profetico Una parola uscita da Gerusalemme (vedi Isaia 2,3). I temi trattati sono per certi versi incandescenti non solo a livello mistico. Pensiamo, ad esempio, al rapporto Israele-gentili, cioè all’incontro con gli stranieri che aderiscono anch’essi a una fede e a una vita giusta seguendo i cosiddetti “precetti noachidi” praticando quindi l’etica universale incarnata da Noè, il patriarca pre-abramitico. Oppure, si leggano le pagine di Greenber quando s’affaccia oltre la morte, nell’interrogazione talora lacerante nella stessa Bibbia sul varcare l’“anticamera” di questo mondo, cioè l’esistenza terrena: una questione che trascina con sé vari corollari antropologici e conseguenti divaricazioni (immortalità o risurrezione?).

O ancora si pensi a quell’enigma tematico che è il libro di Giobbe il cui protagonista sconcerta già in partenza: «Il tessuto regolare della sua vita è stato irrimediabilmente reciso, eppure la sua relazione con Dio persiste». Si configura, così, una sorprendente religiosità, capace di conservarsi immacolata anche di fronte a un Dio inaffidabile, non più garante della moralità e della giustizia. Originali sono anche i due saggi consacrati alla preghiera, soprattutto salmica, e al sabato, gli atti fondamentali della spiritualità giudaica. In particolare nel culto sabbatico, a differenza di quell’altro e più celebre maestro che è stato Abraham Joshua Heschel col suo notissimo libro sul Sabato (Garzanti 2013), Greenberg cerca di rendere più netto il raccordo con l’arco profano dei sei giorni lavorativi e soprattutto con lo spazio della terra di Israele che il sabato si trasforma integralmente in una “casa di preghiera”. Concludendo, ascoltare le voci dei rabbini è un modo per riconoscere alcune sorgenti della stessa fede cristiana, perché non bisogna mai dimenticare che Gesù Cristo fu un ebreo e che dichiarò senza imbarazzo che «la salvezza viene dai Giudei» (Giovanni 4,22).