Andata e ritorno per Elia-Battista

da Il Sole 24 Ore – 7 gennaio 2024 – di Gianfranco Ravasi

All’inizio del nuovo anno, il Cardinal Gianfranco Ravasi ci propone una riflessione un po’ stravagante sul tempo.

 

«Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è la tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è il fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco». Pur avvolto nella simbologia barocca che gli era cara, Jorge Luis Borges rappresentava incisivamente l’identità sostanziale tra tempo e persona: certo, esso è in apparenza un nemico esterno che ci dissolve, ma in realtà è nel nostro intimo, nel nostro essere creatura fragile e limitata. All’inizio del nuovo anno, vorrei proporre una riflessione un po’ libera e fin stravagante sul tempo che – come annotava Gramsci nelle Lettere dal carcere – è «un semplice pseudonimo della vita».

Fermo restando che ha ragione il sempreverde Agostino delle Confessioni: «Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più!», l’umanità da secoli ha cercato invece di «spiegarlo». La classicità greco-romana, ad esempio, ha optato per un’interpretazione ciclica, aggrappandosi al presente. Il motto stoico Nec spe nec metu in questa visione reiterativa scontata escludeva sia il timore sia la speranza, mentre già la tragedia greca non conosceva un approdo alla salvezza.

Prospettiva ben diversa è quella ebraico-cristiana che legge la storia come in corsa su un binario direzionale-progressivo verso una meta escatologica salvifica, ove tempo ed eterno si intrecciano. È quel messianismo che è materialisticamente sotteso anche alla concezione di un Marx che era pur sempre di origine ebraica. L’unica eccezione è in quella sorta di “bastian contrario” che è il sapiente biblico noto con lo pseudonimo di Qohelet/Ecclesiaste. Egli è convinto che «quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: ecco, questa è una novità? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto» (1,9-10).

Noi ora, abbandonando l’asse dinamico tra tempo, futuro ed eternità tipico della concezione biblica generale, procediamo lungo la spirale ciclica di Qohelet, ma con un salto atterriamo nella spiritualità buddhista. A questo ci ha condotto a sorpresa tempo fa un lettore proponendo un’interpretazione comparativa anomala di un passo evangelico. Gesù sta scendendo dal monte della sua Trasfigurazione, il Tabor dell’identificazione tradizionale, e i discepoli lo interpellano su una tesi popolare secondo la quale il profeta Elia sarebbe ritornato sulla terra prima della venuta del Messia.

Cristo risponde che «Elia è già venuto e non l’hanno riconosciuto, anzi l’hanno trattato come hanno voluto». L’evangelista Matteo registra l’interpretazione di questa frase un po’ sibillina da parte dei discepoli: «Essi compresero che egli parlava di Giovanni Battista» (17,10-13). Il lettore sopracitato riteneva che qui si affermasse la reincarnazione di Elia nel precursore di Gesù. Ora, la teoria buddhista del samsara, ossia della catena delle continue rinascite, sostiene che queste reincarnazioni siano uno strumento di purificazione progressiva del soggetto fino alla pace definitiva nel nirvana.

Bisogna riconoscere che questa tesi, cara all’Oriente, si è affacciata in qualche modo anche nella classicità greca con il pitagorismo e il platonismo. Anzi, è apparsa pure in certi movimenti giudaici cabalistici e persino in correnti eterodosse dell’islam e dello stesso cristianesimo. In realtà, la reincarnazione e la metempsicosi (trasmigrazione delle anime in corpi diversi) sono estranee all’antropologia biblica, che è netta nell’affermare il carattere unico e irripetibile del singolo uomo o donna creati da Dio, con una responsabilità etica e un giudizio finale personale, così come nel dichiarare il legame stretto e compatto tra anima e corpo individuali.

E allora che senso ha la frase di Gesù sull’Elia-Battista? Egli rimanda a un passo del profeta Malachia in cui Dio dichiarava: «Io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore» (3,23). È noto, infatti, che la morte di Elia era stata descritta come un’assunzione al cielo per una perfetta ed eterna comunione col Signore (2Re 2,11-13). Era così sorta nel giudaismo la convinzione che il profeta, vivente per sempre presso Dio, dopo la sua ascensione al cielo, sarebbe stato il messaggero divino destinato ad annunziare al mondo la venuta del Messia.

Non per nulla ancor oggi nel rituale giudaico durante la circoncisione di un bambino si lascia libera la cosiddetta «sedia di Elia», nella speranza che egli si renda presente; nella cena pasquale si ha il «calice di Elia», tenuto colmo in attesa che egli venga a comunicare l’arrivo del Messia attraverso la porta di casa lasciata socchiusa. Si pensava anche che Elia venisse costantemente sulla terra, senza essere riconosciuto, a sostenere i poveri, i malati e i moribondi: la folla crede che Gesù crocifisso, quando intona il Salmo 22 (Elì Elì lema sabachtàni), invochi Elia (Matteo 27,46-47), confondendo il suono iniziale di quelle parole (Elì Elì, «Dio mio, Dio mio») col nome del profeta.

A questo punto è facile intuire che Gesù, nella frase rivolta ai discepoli e sopra evocata, partendo proprio dalla tradizione riguardante Elia, usi l’immagine del profeta, considerato come il precursore del Messia, e la applichi a Giovanni Battista che era stato il suo annunziatore, incompreso e alla fine martirizzato (Marco 6,17-29). Anzi, in un’altra occasione – dopo avere tessuto l’elogio del Battista – Gesù aveva ribadito in modo lapidario questa identificazione simbolica: «Egli è quell’Elia che deve venire» (Matteo 11,14). Siamo di fronte a una metafora, ben lontana dalla reincarnazione di Elia nel Battista.