14 Giu Il “viaggio” attraverso la poesia e il pensiero.
Riportiamo l’intervento di Padre Laurent Mazas, Direttore esecutivo del “Cortile dei Gentili”, al Festival Biblico di Verona dello scorso 4 maggio 2017. Il testo, che ripercorre il dialogo tra tre discipline diverse – Bibbia, letteratura e filosofia – sul tema del viaggio nella cultura occidentale, è stato pubblicato nel Bollettino della Società Letteraria di Verona.
Vorrei iniziare questo mio intervento con una domanda: “Dove comincia il viaggio?”.
Se riflettiamo, un viaggio comincia in una biblioteca, in una libreria, e oggi, trovandoci in una realtà 2.0, anche sulla rete.
Al principio del nomadismo, dunque, incontriamo la sedentarietà delle scaffalature, delle sale di lettura, di un computer. È proprio sulla carta che si realizza il primo viaggio, indubbiamente, il più magico e il più misterioso. Il viaggiatore, attraverso le sue fantasie, si muove in un mondo fatto di tracce, di linee, di cifre e numeri… viaggia con la mente. In una maniera tutto sommato platonica, sollecitiamo l’idea di un luogo, il pensiero di un viaggio, per poi – secondo il movimento che il filosofo greco Plotino chiama la dialettica discendente – partire e verificarne l’esistenza, reale e fattuale, la trasformazione in figure sensibili e concrete che, come osserva il filosofo francese Michel Onfray, danzano sotto gli occhi del viaggiatore.
Ho voluto, però, non solo soffermarmi sull’aspetto mentale del viaggio, ma anche su quello materiale, dell’atto stesso del camminare, della marcia.
La nostra vita è il cammino di un viandante in marcia. Il marciatore, uomo o donna che sia, è colui che si sente vivo con passione e mai dimentica che la condizione umana è, in primo luogo, una condizione corporale, e che il godimento del mondo è quello della σάρξ(sarx), della carne. La marcia permette di capire il corpo in relazione con il mondo, consente di muoversi, di uscire dalla propria routine.
Il cammino della vita, la vita come una marcia, costituiscono una metafora, spirituale e filosofica, che chiede di porsi domande rispetto alla nostra stessa storia di vita. Il significato e il valore che viene attribuito alla marcia sono molto cambiati da circa una trentina di anni. Oppressi da una cultura della velocità, dell’abbagliante, dell’efficienza, del rendimento, dell’utilitarismo, tanti riscoprono oggi la marcia, l’andare a piedi sui sentieri per confrontarsi con il proprio corpo e la propria volontà, per ritrovare se stessi, cosa alquanto paradossale nella realtà contemporanea.
Infatti, l’organizzazione della società di oggi gira attorno all’organizzazione scientifica del lavoro teorizzata dal filosofo statunitense Frederick Taylor nella sua monografia del 1911. Si tratta di massimizzare la best practice degli operai, ottenendo così il massimo rendimento produttivo, con lo slogan «Dobbiamo dichiarare la guerra al gingillarsi». Ognuno ricorda la straordinaria denuncia fatta da Charlie Chaplin nel famoso film “Tempi moderni”. Un management che intende razionalizzare la pianificazione del lavoro, finalizzata esclusivamente al produrre, produrre e produrre, fa perdere il gusto della vita e, nel lavoro, la soddisfazione e motivazione personale. È dunque salutare uscire da questi cerchi infernali, allontanarsi dalla frenesia, dalla fretta continua, dalla velocità, e camminare per ritrovare se stessi. Oggi, passiamo il tempo a camminare più velocemente della nostra ombra, durante il cammino andiamo invece allo stesso passo della nostra ombra. La marcia è dunque una forma di resistenza, di riflessione!
Camminare vuol dire “prendere tempo per se stessi”. Jean-Jacques Rousseau rivela nel suo Ritratto la sua passione per la marcia come anche nel libro IV de Le Confessioni, quando afferma:«Mi piace camminare a mio agio e fermarmi quando mi aggrada. La vita ambulante è quella che fa per me. Camminare a piedi col bel tempo, in un bel paese, senza fretta, e avere per meta un oggetto piacevole: ecco fra i modi di vivere il più caro ai miei gusti […]. Mai paese di pianura, per bello che fosse, parve tale ai miei occhi. Mi ci vogliono torrenti, rupi, abeti, fondi boschi, montagne, scoscesi sentieri da salire o discendere, precipizi ai miei fianchi da farmi paura.»
Nel suo famoso romanzo Emilio, la interpreta come una vera e propria forma pedagogica. Difatti, la ritrae sia come esercizio di semplicità, sia come mezzo di contemplazione. Quando si cammina, si è in uno stato di “arrêt sur image” – di pausa – che permette di guardare, di contemplare, e rende consapevole della propria esistenza. È un modo di riprendere il respiro, di sentirsi di nuovo nella vita. La marcia ci riporta dentro di noi e, insieme alla sua gioia, ci aiuta a ritrovare l’essenziale della condizione umana, il rapporto con la notte, con il giorno nascente e che sta giungendo al termine, con il ritmo della fame, della fatica, dello sforzo. Nell’atto stesso del camminare siamo, con il mondo che ci circonda, in uno stato di sensorialità totale, in una sorta di panteismo naturalistico, tramite l’ascolto degli uccelli, il sentore dei fiori, il tocco della terra o dell’acqua, la visione della luce, l’ascolto del silenzio, la contemplazione della bellezza e, a volte, anche di cose tragicamente ferite. Quest’apertura a 360 gradi della nostra sensorialità ci permette di ritrovare il gusto della vita.
Platone nel mito del carro e della biga alata, presente nel Fedro, evidenzia proprio quest’aspetto: l’importanza della ratio che deve guidare, cercando di tenere in armonia due forze contrastanti, quella dei sentimenti di carattere spirituale, rappresentati dal cavallo bianco, e quella della passione, dei piaceri, e quindi dei sentimenti tipici della dimensione sensibile, evocati dal cavallo nero. Nella vita quotidiana, infatti, il nostro sguardo è raramente contemplativo: la frenesia dei giorni ci obbliga a renderlo utilitaristico. Invece, grazie alla totale disponibilità sensoriale e alla ragione, durante il cammino, nella sua lentezza, si vive a caccia di bellezze, di odori, di sonorità, spinti a fermarci davanti alle scoperte, alla riflessione. In ogni marcia c’è una dimensione metafisica, di apertura al mondo, il sentimento di essere una “creatura”, cioè uno che non guarda più se stesso dall’alto, ma in mezzo agli altri esseri; questo ci fa capire che siamo un frammento dell’universo.
Quindi, il camminare va oltre il cammino stesso, introduce a una dimensione metafisica. È vero che oggi tanti pellegrini che si mettono alla prova sul “Cammino di Santiago” non lo fanno tanto per raggiungere un luogo santo, dove trovare un supplemento di grazia, un’indulgenza, ma perché sanno che il fatto stesso di camminare in mezzo alla natura, di incontrare e scambiare con gente proveniente da tutti gli orizzonti, di ritornare a un cibo primitivo e all’acqua delle sorgenti, di dormire in abitazioni rustiche, di bruciare le scarpe, li purifica, li rimette davanti all’essenziale, e permette loro di ritrovare “la nudità dell’essere” – per usare un linguaggio heideggeriano.
Riprendiamo l’esempio del “Cammino di Santiago di Compostela”: è stato riscoperto e sviluppato a partire dagli anni ’80, cominciando a trascinare flussi di uomini e di donne di tutto il mondo, di tutte le culture, religioni, credenze, convinzioni e spiritualità; tutti, alla ricerca della loro “chiesa interiore”, di un loro “Dio interiore”, della propria umanità e di una salutare pacificazione personale. Il cammino, infatti, permette un lungo viaggio a cielo aperto, all’aria aperta, nella disponibilità di ciò che è offerto dal mondo. Qualsiasi percorso si trova dapprima sepolto in se stesso, per poi scendere sotto i piedi. Porta a sé, ancor prima di portare a una destinazione particolare. E a volte finisce per aprire finalmente quella porta stretta che conduce a una felice trasformazione di se stesso: «La strada la scopri mentre sei in cammino» dice il poeta e filosofo spagnolo di origini basche Miguel de Unamuno. Camminare ci educa e rieduca alla concretezza, ci invita a cogliere l’istante, non in senso edonistico, bensì morale, come sentimento della presenza nel mondo, nella storia, nella relazione, nella fraternità.
La marcia, non solo favorisce un grande clima di amicizia – quando si cammina in due, a volte anche per caso, vista l’imprevedibilità degli incontri –, ma provoca anche un indebolimento fisico dovuto alle lunghe ore di cammino. Ciò obbliga all’umiltà: camminare, per giorni, allo stesso passo dell’altro non è una cosa semplice, ma la fatica è polverizzata dai desideri, dalle aspirazioni, dalla propria volontà. Si costruiscono relazioni, c’è la possibilità di sbrogliare questi legami e, infatti, il camminare insieme è una prova di verità e uno spazio di riconciliazione. In realtà, l’assenza di dimora, di terra, dei viandanti-girovaghi è uno schema che, nella storia, è stato contrastato da molte ideologie totalitarie.
Il citato filosofo francese Michel Onfray, nel suo saggio Filosofia del Viaggio, afferma che il nazionalsocialismo tedesco, ad esempio, esaltava la razza ariana sedentaria, radicata, stabile e nazionale, designando come “nemici” gli ebrei, gli zingari, ossia nomadi senza radici, itineranti e cosmopoliti. Lo stalinismo russo ha agito allo stesso modo, perseguitando, a sua volta, i semiti e i popoli di pastori delle repubbliche caucasiche o della Siria meridionale. Queste ideologie dominanti volevano negare il loro diritto di esistere, la loro natura di vagabondi che camminano, viaggiano, passeggiano, in opposizione a coloro che sono radicati, immobili come statue: «il fiume contro l’albero»
Certo, la marcia in città è diversa, segue altre modalità di osservazioni, di sensorialità, di significazioni. La città è un universo di emozioni, di osservazioni: si cammina con l’occhio del sociologo, osservando la gente che parla o che si ignora, come si veste e quanto è prigioniera delle proprie preoccupazioni. Ovviamente, in ogni città si vive un’esperienza unica: pensate qui a Verona, a differenza di Roma; o Gerusalemme a differenza di Istanbul, New York o di una città dell’Asia, dell’Africa o del Maghreb. Entrando nei quartieri delle città, a volte si sente come la presenza di un “genio” che ci accoglie, a volte, un altro che ci chiude le porte e ci consiglia di cambiare strada.
Il camminatore non è mai solo. Entra in mondi abitati, a volte solo da animali, altre volte da soli uomini, e quando ha l’impressione di stare da solo porta con sé i propri pensieri, la folla di chi è presente nella sua memoria, vivi e morti che lo seguono e gli fanno compagnia. Ecco perché, con i ricordi evocati, c’è qualcosa nel camminare che si avvicina alla preghiera. Infatti, la marcia è un universo di emozioni, di sensorialità, di ri-memorizzazione, o di memorizzazione tout court.
Se una visita può esser ricollegata, per lo più, all’intelligenza storica, la marcia è ancora più legata alla dimensione poetica, all’intelligenza del cuore. Da quest’ultima nasce una spiritualità della marcia, cioè uno sguardo interiore che cerca di “intus legere”, di esplorare all’interno i sensi nascosti, le funzioni simboliche delle cose che ci circondano, la loro sacralità. Questa “spiritualità” consiste soprattutto nello sguardo che si pone sull’ambiente e che aiuta a ritrovare se stessi. Possiamo, quindi, parlare di pellegrinaggio come atto di sacralizzazione e dato fondamentale dell’antropologia religiosa, come analizzato dal filosofo Alphonse Dupront nel Dizionario delle religioni pubblicato dal cardinale Paul Poupard. Esiste, però, una differenza sostanziale tra il pellegrinaggio di matrice cristiana e orientale. Nel primo, il viaggio e l’arrivo sono in simbiosi, perché hanno come scopo il raggiungimento di una meta, un santuario – alcuni parlano di universo chiuso. Nel mondo orientale, invece,non esiste un vero e proprio punto di arrivo o d’inizio. Per esempio, nel mio Paese di nascita, il Giappone, nell’isola di Shikoku esiste il “Cammino dei templi”, lungo il quale si possono visitare ottantotto siti sacri del buddhismo shingon (shingonsta per “parola vera”). L’obiettivo non è quello di raggiungere un luogo fisico, ma l’illuminazione e l’aumento dei propri poteri spirituali, secondo quanto compiuto dal monaco. Nel buddhismo, il sentiero, comprende otto fattori che mirano a favorire lo sviluppo di tre elementi della via:
- La condotta etica: parola, azione e mezzo di esistenza;
- La disciplina mentale: sforzo, attenzione e concentrazione;
- La sapienza: il pensiero e la comprensione.
Questi fattori devono essere posti in essere non successivamente, bensì simultaneamente e lo sviluppo di ognuno aiuta a praticare gli altri.
Il Γνῶθισεαυτόν(Gnôthi seautón) di Delfi, l’umbelicus mundi della filosofia da dove sono stati tracciati tanti itinerari di conoscenza, da Socrate a Hannah Arendt, ossessiona la filosofia occidentale. Perché il “se stesso” è fluido: nessuno sa di che cosa sarà fatto il proprio futuro; un uomo si comporta in modo diverso con la mamma e il padre, gli amici e il poliziotto, la moglie e i figli. La condizione umana non è un dato definitivo, ci mette nella necessità di costruire noi stessi, la nostra identità, di essere gli artigiani delle nostre vite. L’identità è relazionale – dicono i sociologi e gli psicologi – e la confusione di una cultura tanto inquinata da un’overdose di comunicazione, modula la nostra identità o forse il sentimento che abbiamo di noi stessi.
In realtà, nel viaggio, andiamo a incontrare l’uomo o la donna che siamo, ma che non sappiamo ancora di poter essere. La marcia è un luogo per prendere decisioni, per approfondire le riflessioni, per cambiare orizzonte. Lo faceva alle ore 15 papa Benedetto camminando nei Giardini Vaticani, lo fa la sera il cardinale Gianfranco Ravasi prima di sedersi a scrivere gli innumerevoli articoli e libri che ci regala.Lo dice Friedrich Nietzsche nel suo famoso saggio La gaia scienza: «Scrivere col piede. Io non scrivo soltanto con la mano: anche il mio piede vuol essere scrivano, saldo, libero e prode. Esso mi corre sui campi e attraverso il foglio». Lo faceva molto prima di loro Aristotele, con la sua scuola dei Peripatetici, e gli Stoici, nel portico di Atene! Lo fanno anche i ragazzi poco raccomandabili, come per esempio con l’associazione francese “Seuil”, nata da un incontro del fondatore, nel 1998 sul Cammino di Compostela, con due delinquenti belgi ai quali un giudice intelligente aveva proposto quest’alternativa: la marcia o il carcere? Racconta il fondatore e scrittore Bernard Ollivier che «la felicità di questi due adolescenti […] dimostrava quanto avesse intuito bene il giudice: l’incarcerazione non è una soluzione». Il senso di libertà offerto dalla marcia, la felicità di poter superare i limiti e, soprattutto gli incontri che permettono, sono i veri percorsi di resilienza: riscoprono la lentezza, la conversazione, il silenzio. Proprio per evidenziare il potere silenzioso del “cammino”, Søren Kierkegaard ama citare Diogene, dicendo:
«Quando gli Eleati negarono il movimento, Diogene si fece avanti come antagonista. Si fece avanti letteralmente, perché non disse una sola parola, si limitò a passeggiare avanti e indietro diverse volte, ritenendo con ciò di averli sufficientemente confutati».
Oggi, i giovani non sanno più conversare, ma solo comunicare con i loro cellulari; non sanno più cosa sia il silenzio, perché s’immergono in un flusso continuo e unidirezionale di rumori: il cellulare, le cuffie, la musica, il computer… Il cammino, nella sua lentezza, diventa una specie di passaggio iniziatico, di rinascimento, di metamorfosi.
Lo dobbiamo riconoscere: la marcia possiede questa facoltà di trasformarci radicalmente. Significativa quest’affermazione dello scrittore francese Jacques Lacarrière: «Camminare, oggi, soprattutto oggi, non è tornare ai tempi del neolitico, ma piuttosto essere profeta».
Vorrei concludere con questa citazione di Tzvetan Todorov, pensatore bulgaro-francese recentemente scomparso, tratta da Le morali della storia:
«Che cosa non è un viaggio? Per poco che si dia un’estensione figurata a questo termine, il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte? Lo spostamento nello spazio è il primo segno… simboleggia il passaggio del tempo, lo spostamento fisico, a sua volta, il cambiamento interiore; tutto è viaggio».