Sulla Sorveglianza Governativa

PARTE 2

Le dichiarazioni di Snowden rappresentarono un vero tornado per la società civile mondiale non tanto per la natura del gesto – la desecretazione e pubblicazione di documenti top secret – e nemmeno per l’esistenza di un programma di sorveglianza. Ogni entità politica che detiene la sovranità, dalle prime forme di associazionismo fino alla nascita degli Stati moderni, ha la necessità di esercitare una forma di controllo sulla popolazione che vive nel territorio all’interno del quale questa sovranità si manifesta. Questa necessità risiede in primis in una volontà che ogni governante coltiva: mantenere ben saldo il proprio potere, sia questo ottenuto tramite la coercizione o attraverso il consenso. In secondo luogo, questa necessità risiede nel dovere, da parte dello Stato, di asservire alla funzione principale per la quale è stato creato. Se la premessa di partenza è infatti la prospettiva contrattualista di Thomas Hobbes, allora risulta che lo Stato trova il suo compito primario nel garantire la sicurezza dei propri cittadini. Egli è dunque il titolare della sovranità in quanto i cittadini hanno deciso di conferirgli il monopolio legittimo della violenza per fuggire dall’état de nature. Quest’ultimo rappresenta infatti, una condizione di bellum omnium contra omnes dove l’esistenza di ciascun individuo è minacciata dalla presenza di altri individui altrettanto intelligenti e forti. Questa premura, nel dover garantire uno spazio “sicuro”, è esattamente la ragione formale e originaria in nome della quale ogni Stato conduceva la sorveglianza di alcuni cittadini. Più precisamente, questa élite riservata che godeva di particolare attenzione del potere statale, era composta da quegli individui che rappresentavano una potenziale minaccia alla “sicurezza nazionale”: terroristi, attentatori, sovversivi, banditi, etc.  Stando così le cose, dunque, la sorveglianza dei cittadini non era solo comprensibile ma anche legittima e necessaria.

Il grattacapo sollevato dalle rivelazioni di Snowden risiedeva nel fatto che questa sorveglianza era “di massa”. Detta in modo conciso, il problema emerso era che si stesse assistendo al passaggio da una sorveglianza mirata di alcuni individui per fini abbastanza chiari, ad una sorveglianza indiscriminata di una totalità di persone per fini piuttosto oscuri. Seppur elementi cardine nell’alimentare la consapevolezza delle persone riguardo questo ambito, le rivelazioni di Edward Snowden o altri whistleblowers non sono l’unico fattore che spiegano la crescente rilevanza del tema della sorveglianza governativa. La profonda attenzione verso questo argomento è riconducibile infatti ad un paradigma di trasformazione sociale che risulta in quel processo che Max Weber e Norbert Elias definirono come “l’evoluzione della forma dominante della ricchezza”. Attraverso questa espressione si vuole designare il fatto che l’investimento di capitale ha gradualmente sostituito le rendite della proprietà fondiaria come modalità dominante di accumulazione della ricchezza, a causa dello sviluppo delle pratiche monetarie.

Nella nostra società contemporanea, non è azzardato sostenere che la forma dominante di accumulazione della ricchezza siano i dati. Questi ultimi rappresentano infatti una nuova immensa fonte di potere che fornisce ai suoi detentori una ricchezza direttamente proporzionale alla quantità di informazioni posseduta.  Come conseguenza di ciò, l’ascesa dei dati sembra suggerire un processo di rinnovamento di quel modello socio-economico, il sistema capitalista, che non ripone più la sua modalità principale di accumulazione della ricchezza nel denaro, bensì in un oggetto immateriale. Questo nuovo modo di concepire i rapporti economici e sociali è ciò che lo studioso Yann Moulier Boutang ha definito come “cognitive capitalism”. Con questo termine si vuole indicare infatti una transizione verso un nuovo modello di produzione in cui l’accumulazione della ricchezza si basa sull’intangibilità dell’oggetto. Lo slancio dei dati evidenzia anche una ridefinizione del concetto di Potere stesso. I governi del 21esimo secolo, nella maggior parte dei casi e soprattutto nelle società che si professano liberali e democratiche, considerano ormai obsolete le antiche forme di dominazione e controllo dei propri cittadini. Atteggiamenti esplicitamente coercitivi, minacciosi, violenti e repressivi incontrerebbero vigorose resistenze da parte della società civile che invocherebbe a gran voce un avvicendamento della classe dirigente. Non per questo le autorità hanno abbandonato le proprie velleità di controllo. Queste hanno semplicemente rinnovato le forme attraverso cui esercitare la propria superiorità. Più precisamente, queste forme trovano la loro espressione principale nei dati. Raccoglierne, processarne, consumarne e produrne in quantità sempre maggiori è ciò che permette alle amministrazioni di mantenere ben saldo il proprio potere.

Tommaso Butò