Splende nel Diwan la luce d’Oriente

da Il Sole 24 Ore – 8 dicembre 2019 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo, il Cardinale Gianfranco Ravasi narra del «Canzoniere», del poeta e martire al-Hallaj. Un testo splendido per dettato poetico e intima comunione con Dio, espressi con il linguaggio dell’amore.

È stato usato come insegna per qualche agenzia di viaggi e persino per uno studio oculistico: è il motto latino Ex Oriente lux, adottato in passato soprattutto dagli studiosi di semitistica o di archeologia dell’antico Vicino Oriente. Al di là dell’ovvietà geografica e del rimando più colto alla stella dei Magi spuntata ad Oriente o all’espressione sol ex Oriente che spazza via le tenebre degli eretici, presente in uno scritto del papa Leone Magno (440-461), la formula vuole esaltare la fecondità delle civiltà orientali, tant’è vero che nel Medioevo – con un gioco di parole – si era coniato l’asserto Ex Oriente luxex Occidente lex.

Noi ora vorremmo, molto simbolicamente, confermare quel detto latino ricorrendo a due diversi orizzonti “orientali”. Il primo è quello della mistica islamica, un’attestazione che dovrebbe incrinare la visione monocorde di un mondo musulmano fondamentalista e legalista. Il personaggio che facciamo salire sulla ribalta è una sorta di martire mistico e poetico, al-Hallaj, nato nell’857 in Persia da un cardatore di cotone (in arabo appunto hallaj, che è quindi un soprannome perché il nome anagrafico sarebbe Abu’l-Mughith al-Husayn ibn Mansur). La sua vita, però, si era svolta in Iraq, prima a Bassora e poi a Baghdad, senza però escludere lunghe peregrinazioni non solo alla Mecca ma fino in India e Cina.

Il fascino del suo messaggio spirituale non poteva che creare attorno a lui non solo una cerchia di discepoli, ma anche una rigida cortina di ferrea ostilità. Arrestato, viene trascinato in una piazza ove viene issato su una croce, dopo che gli sono stati mozzati piedi e mani, ed esposto al pubblico ludibrio per un giorno e una notte. All’alba viene deposto dal patibolo, decapitato, arso con petrolio e le sue ceneri gettate al vento da un minareto. Tra le sue ultime parole c’è una frase che lo raccorda idealmente a Cristo crocifisso: «Perdonali, perché se Tu avessi rivelato a loro quello che hai rivelato a me, non farebbero ciò che fanno», variante – se si vuole – dell’evangelico «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Per conoscere il messaggio di questa figura emozionante è fondamentale il suo Diwan o “Canzoniere” che un nostro importante arabista, Alberto Ventura (che nel 2010 con altri ha curato per Mondadori un’edizione del Corano), ha tradotto integralmente per la prima volta nel 1987, versione che ora viene di nuovo proposta. Sarà per tutti i lettori un’esperienza folgorante, anche per lo splendore del dettato poetico, ma soprattutto per la concezione di base che esalta la comunione intima, assoluta e purissima con Dio, non di rado ammiccando al linguaggio amoroso, come spesso accade alla letteratura mistica anche cristiana (si pensi a Giovanni della Croce o a Teresa d’Avila).

Basti ascoltare il più citato dei suoi testi: «Il Tuo Spirito è impastato col mio, come l’ambra col muschio odoroso. Se qualcosa Ti tocca, mi tocca: non c’è più differenza, perché Tu sei me». Metaforicamente il muschio è la natura umana, mentre quella divina è l’ambra. Oppure quest’altro passo, reiterazione del precedente: «Il Tuo Spirito s’è mischiato col mio, come il vino con l’acqua pura. Se qualcosa Ti tocca, mi tocca: Tu sei me in ogni stato». Giustamente Ventura offre l’ermeneutica necessaria per impedire che quella di al-Hallaj (e del sufismo, il movimento spirituale connesso) sia letta come una proposta immanentistica. Fu questa, però, l’interpretazione che avallò la sua condanna capitale: era, infatti, agli occhi degli accusatori un’orribile bestemmia contro la totale trascendenza divina proclamata dall’islam.

Il nostro itinerario nella luce dell’Oriente non può ignorare che potente e intensa fu anche la presenza cristiana, a partire dai Padri greci e siriaci della Chiesa. Una presenza che lambisce pure i nostri giorni. Molti ricorderanno la foto nella quale Paolo VI, durante il suo pellegrinaggio in Terrasanta, veniva quasi avvolto in un abbraccio fraterno dall’imponente figura di Athenagoras, il patriarca ortodosso di Costantinopoli. Ebbene, uno storico di alto profilo come Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha voluto ricostruire un altro incontro avvenuto nel 1968 a Istanbul. Protagonista era ancora Athenagoras, nato nel 1886 e quindi ottantaduenne.

L’interlocutore era, invece, un professore francese che in giovinezza era stato ateo e che si era avvicinato al cristianesimo proprio attraverso la fede ortodossa di Dostoevskij, Lossky, Berdjaev e così via. Il suo nome era Olivier Clément e sarebbe divenuto uno dei teologi più suggestivi e ascoltati (anche dal mondo “laico”) del Novecento, capace di irradiare una spiritualità ecumenica luminosa, al punto tale che Giovanni Paolo II lo scelse per comporre i testi della “Via Crucis” al Colosseo del 1998. Riccardi ricostruisce in un saggio, che ha anche la tonalità di una narrazione, quel dialogo tra il patriarca e il professore, destinato ad approdare a un libro nel 1969, ad esser riedito nel 1976 con l’aggiunta di un ritratto completo dell’interlocutore che nel frattempo (1972) era morto.

Il saggio dello studioso romano va, però, oltre la rappresentazione di quelle «conversazioni sul Bosforo», perché egli tratteggia un affresco grandioso che, certo, ha nel centro quell’incontro ma che si ramifica fino a raggiungere l’intero panorama storico sia antecedente, sia contestuale e posteriore. Così, non può mancare l’irrompere del Sessantotto al cui interno Clément opera e s’interroga (suggestivo già nel titolo era stato il suo saggio Dioniso e il risuscitato), ma anche il percorso che il professore fa, transitando criticamente attraverso l’India, meta venerata da quella generazione, fino alla lux ex Oriente dell’Ortodossia, guardando però anche alla Firenze di La Pira. Solo così si poteva identificare un senso della vita e della storia che i dialoghi con Athenagoras – la cui vicenda umana e spirituale è ricreata da Riccardi in modo affascinante – avrebbero dischiuso ed esplorato.

È così che sboccia anche una nuova visione del mondo e soprattutto che in esso s’impiantino «Chiese sorelle e popoli fratelli». Quelle conversazioni diventano quasi il prisma interpretativo per rileggere la storia del secolo scorso nella sua dimensione spirituale e culturale, sono l’occasione per codificare meglio il linguaggio poetico e poietico (fatto cioè di bellezza e di azione, di fede e di opere) del vero dialogo, sono l’epifania di un cristianesimo non moralistico ma «vita, fuoco, trasfigurazione», ancora necessario nell’attuale atmosfera così grigia, racchiusa in gretti nazionalismi e in asfittici populismi o nella nebbia dell’indifferenza.