20 Ott Non dimentichiamo il Libano
Un tornado in grado di spazzare via edifici, automobili, persone. Un boato capace di infrangere vetri, distruggere finestre, abbattere muri. Una paura tale da lasciare tutti senza parole di fronte a un disastro inesorabile. Quello che è successo lo scorso 4 agosto in Libano, a Beirut, quando una doppia deflagrazione ha causato oltre 200 morti e migliaia di feriti, ha lasciato tra le macerie un pezzo intero della capitale insieme al cuore pulsante della sua vita economica e commerciale: il porto.
Una vicenda drammatica avvenuta in uno dei momenti più drammatici della recente storia mondiale, che ci vede tutti uniti contro una pandemia globale, ma anche in un luogo che già da tempo fa i conti con quella che è stata definita la peggiore crisi economica degli ultimi 30 anni.
Il paese dei cedri è in ginocchio e l’emergenza non è solo economica, ma anche sociale e ambientale, a causa della spirale di disoccupazione, povertà, suicidi e inquinamento alimentata anche dalle vicende più recenti. Non a caso, nonostante il Coronavirus obblighi tutti a una social distancing forzata, la popolazione locale continua a scendere in piazza, protestando contro una classe politica corrotta che ha contribuito ad alimentare una tragedia già in corso.
Il Libano negli ultimi anni ha visto il proprio debito pubblico arrivare al 150% del PIL, con un salario medio inferiore ai 300 euro. E in questo contesto la classe politica ha proposto nuove tasse su tabacco, benzina e perfino sulle chiamate Whatsapp. E in un paese dove l’elettricità salta di continuo, il lavoro manca, la povertà dilaga e la sicurezza alimentare non esiste, l’esplosione di Beirut unita alla pandemia sono state benzina sul fuoco della protesta.
La rabbia popolare ha spinto il vecchio premier, Saad Hariri, a dimettersi lasciando il posto a Hassan Diab, ex ministro dell’Istruzione. Ma la verità è che la classe politica è la stessa da 30 anni, all’apparenza distante da una popolazione che fatica a sopravvivere.
A marzo il paese ha anche dichiarato fallimento, facendo sì che la lira libanese si deprezzasse drasticamente rispetto al dollaro; un problema non da poco se si considera che la moneta americana è usata quotidianamente per il turismo e gli scambi commerciali. Di conseguenza i dollari nel sistema sono sempre meno e il paese fatica ad importare diversi prodotti alimentari come il grano e la carne, rendendo così gli scaffali dei supermercati o vuoti o pieni ma con prezzi altissimi.
I problemi valutari accrescono le difficoltà anche nei rifornimenti di carburante che alimentano i generatori; ecco perché aree intere di Beirut possono rimanere senza corrente anche 16 ore di seguito. Un aspetto che influisce sulla quotidianità del paese, al punto che il Rafiq Hariri University Hospital, uno degli ospedali più grandi della capitale, ha scelto di spegnere l’aria condizionata nei corridoi e negli uffici amministrativi, chiudere diverse sale operatorie e rinviare molti interventi chirurgici, per garantire il funzionamento dei reparti di terapia intensiva dove curano la maggior parte dei casi di Covid-19 del paese. A discapito di tutti gli altri reparti.
In questa cornice già grave, si aggiunge anche il fattore ambientale. Il Libano non è più in grado di gestire i suoi rifiuti. Le principali discariche sono piene e l’incapacità del governo di gestire la situazione fa sì che i rifiuti si accumulino nelle città e sulle spiagge libanesi. Da anni la popolazione chiede maggiore attenzione verso quella che è una delle piaghe più profonde del paese, la tutela dell’ambiente. Il Libano è infatti nella lista dei paesi più inquinati del mondo, con un numero stimato di morti riconducibile ai combustibili fossili pari a 2.700 nel 2018, un tasso di quattro morti ogni diecimila persone. Il peggiore del Medioriente.
Il dramma del porto ha quindi ridisegnato, ingrandendoli, i contorni di una tragedia già esistente. In un luogo che importa l’80% del cibo che consuma, a causa dell’inagibilità del luogo di attracco, le navi mercantili stanno subendo un rallentamento. Una situazione fuori controllo se si pensa che già prima della deflagrazione un cittadino su due dichiarava di avere paura di non riuscire ad avere accesso al cibo e il 31% affermava di non mangiare in modo costante.
Ma oltre alla crisi alimentare, a preoccupare c’è dell’altro. Un terzo della popolazione libanese, già prima dell’esplosione, viveva al di sotto della soglia di povertà e per strada. La detonazione, che oltre al porto ha spazzato via un intero quartiere, causando danni a diversi chilometri di distanza, ha privato della propria casa tantissime altre persone. A Beirut ora gli sfollati sono 300mila, di cui 80mila bambini.
Intanto le proteste continuano, il governo si è di nuovo dimesso, e il responsabile del deposito di nitrato d’ammonio esploso, che ha ignorato negli anni ogni appello di rimozione, rimane impunito e questa impunità accresce il rischio di sollevazioni popolari e scontri interni che inasprirebbero ancora di più la situazione. E mentre le gare di solidarietà sono già partite, l’augurio è che il paese riesca ad avviare un’opera di ricostruzione senza interessi di parte, guardando al bene comune e al futuro della nazione, che da sempre rappresenta qualcosa di più di uno Stato, come ha affermato Papa Francesco: “il Libano è un messaggio di libertà, è un esempio di pluralismo tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente. Per il bene stesso del Paese, ma anche del mondo, non possiamo permettere che questo patrimonio vada disperso”.