Le rotte della salvezza

La recente tragedia avvenuta al largo delle coste della Calabria ha rimesso prepotentemente in luce il tema dei rifugiati e dei migranti, riaccendendo il dibattito non solo in Italia ma nell’Europa intera. Eppure il fenomeno migratorio non rappresenta una novità. Esiste sin dall’inizio dell’umanità, anche se negli ultimi anni stiamo assistendo a livello internazionale ad un aumento di migrazioni di massa, con un numero sempre crescente di persone che intraprendono pericolose traversate via terra o via mare su quelle che possono essere chiamate rotte della salvezza. Povertà, terrorismo, guerre, economie instabili, catastrofi naturali, assenza di diritti umani: queste profonde crisi politiche, economiche, climatiche e soprattutto umanitarie, sono le ragioni che portano a cercare migliori condizioni di vita in altri paesi.

I principali flussi che interessano l’Europa sono quattro. La rotta centrale, è quella che convoglia le popolazioni africane provenienti dalla regione Subsahariana e dalla regione settentrionale verso l’Italia e l’isola di Malta, tramite la Libia, la Tunisia e l’Algeria.
La rotta orientale ha invece come punto di partenza il Medio Oriente e come punti di arrivo l’isola di Lesbo, le isole del Dodecaneso, Cipro e la Bulgaria.
La rotta balcanica è quella che coinvolge i migranti sbarcati in Grecia e diretti verso la Germania e i Paesi scandinavi mentre quella occidentale interessa il tragitto tra il Marocco e la Spagna.

La maggior parte di questi spostamenti avviene in condizioni disumane: lunghissime tratte da percorrere a piedi o interminabili viaggi in mare su imbarcazioni di fortuna, tragitti dentro camion o container in cui si rischia di soffocare; il tutto aggravato da abusi e sfruttamento da parte di chi gestisce il traffico di queste rotte nell’irregolarità, chiedendo altissime cifre per il viaggio e mettendo a rischio la vita di rifugiati e migranti.

Ma cosa può spingere qualcuno a rischiare tutto? Quanti accettano di viaggiare lungo tragitti estremamente pericolosi, mettendo a rischio non solo la propria incolumità ma anche quella della propria famiglia?
La risposta è data dalle situazioni critiche in cui versano i paesi da cui partono questi flussi migratori: stati-prigione dove tortura e schiavitù sono la norma, e che spesso dipendono quasi totalmente dagli aiuti umanitari.

Dai dati raccolti dall’Operational Data Portal dell’UNHCR sappiamo che nell’area del Mediterraneo in questi primi mesi del 2023, sono sbarcate circa 20.000 persone ed altre 400 sono arrivate via terra. Famiglie partite su pescherecci, barconi fatiscenti e dalle piccole dimensioni. Donne, uomini e bambini, partiti dall’Africa occidentale o dal Medio Oriente, e diretti verso le Isole Canarie, la Spagna, Malta, l’Italia e le isole della Grecia. Attraversando la Turchia e i Balcani, desiderosi di poter iniziare una nuova vita nei paesi dell’Unione Europea. Spinti dal profondo desiderio di libertà che caratterizza ogni individuo, e dalla necessità di assicurare un futuro migliore a loro stessi e ai propri cari.

In una recente intervista il cardinal Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della CEI, è intervenuto sul tema sostenendo l’importanza del diritto all’emigrazione e facendo un appello all’accoglienza: «Dobbiamo metterci sempre nei panni degli altri. Chi ha perduto tutto e deve scappare, deve trovare accoglienza. Non ci sono alternative. Quello all’emigrazione era un diritto garantito per tutti gli uomini, prima che sorgessero muri e nascessero paure. Tanto più per chi scappa da guerra, violenza o fame. Mettere in contrapposizione questo con il nostro futuro, significa non volere il futuro. L’accoglienza apre al futuro, la chiusura fa perdere anche il presente».