Intervista a Giuliano Amato: la sfida della politica per il mondo dei giovani

Giuliano Amato, nato nel 1938, è un politico e docente universitario italiano. Ha studiato diritto alla Scuola Normale Superiore di Pisa e alla Columbia University di New York. In seguito, è stato professore ordinario di diritto costituzionale italiano e comparato nella Università di Roma “La Sapienza”, dopo avere insegnato nelle Università di Modena, di Perugia e di Firenze ed è stato altresì professore alla New York Law School e all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Ad una brillante carriera accademica si è unita un’intensa e altrettanto brillante attività politica. Entrato a far parte del PSI (Partito Socialista Italiano), nel 1983 è stato eletto per la prima volta deputato e, in seguito, ha ricoperto più volte la carica di Ministro e di Presidente del Consiglio, nonché Senatore e Vicepresidente della Convenzione Europea. Inoltre, è stato Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana e della Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa. Attualmente è Giudice della Corte Costituzionale. Tiene ancora qualche lezione alla School of Government dell’Università LUISS di Roma e presiede la Fondazione Cortile dei Gentili. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Dialoghi post-secolari (con Vincenzo Paglia), Marsilio, 2006; Un altro mondo è possibile? Parole per capire e per cambiare (con Lucia Pozzi), Mondadori, 2006; European Constitution: Cases and Materials in EU and Member States’ Law (con Jacques Ziller), Edward Elgar, 2007; Forme di Stato e forme di governo (con Francesco Clementi), Il Mulino, 2012; Grandi illusioni. Ragionando di storia d’Italia (con Andrea Graziosi), Il Mulino, 2013; Lezioni dalla crisi (con Fabrizio Forquet), Laterza, 2013; Europa perduta? (con E. Galli della Loggia), Il Mulino, 2014; Le istituzioni della democrazia. Un viaggio lungo cinquant’anni, Il Mulino, 2015.

 Presidente, lei è una personalità di spicco della politica e del pensiero politico italiano. Ha dedicato e tuttora dedica a questa realtà una buona parte del suo lavoro. Quale definizione darebbe della politica?

Da giudice costituzionale la politica oggi non la pratico, mi limito a studiarla, come del resto ho fatto da professore. Detto questo, in uno dei miei libri dal titolo Un altro mondo è possibile?, la definivo come l’arte di affrontare e risolvere i problemi che i singoli non sono in grado di gestire o da soli o insieme ad altri nella sfera privata. È una definizione generalissima che regge ancora.

Come caratterizzerebbe la funzione della politica per la società e per i più giovani?

La politica può assolvere davvero alla funzione che prima dicevo, solo se alimentata da quella risorsa immateriale e invisibile che è la fiducia dei cittadini. Risolvere i problemi di una società richiede infatti che se ne coinvolgano i componenti e li si convinca ad accettare anche dei sacrifici in vista del bene comune. Chi non gode di fiducia non ha questa capacità. E – si badi – la fiducia non è così facile da ottenere come il consenso elettorale, anzi a volte la si ottiene proprio quando si ha il coraggio di non fare promesse e di chiamare invece alla responsabilità. Altre due cose sono essenziali per ottenerla: che non ci siano figli e figliastri, ma una trasparente eguaglianza di trattamento per tutti; che si affrontino le questioni che contano. Quanti politici sono oggi consapevoli delle questioni che più preoccupano i giovani per il loro futuro, che non sono solo quelle del lavoro, ma anche quelle dell’ambiente?

I giovani vivono un momento di particolare smarrimento e di indecisione. Il futuro è per molti di loro incerto. Se è possibile ammettere l’esistenza di fasi precarie nella vita di ciascuno, è anche vero che non si può tollerare che i giovani vivano nell’incertezza assoluta circa il futuro. La politica dovrebbe lavorare in questo senso, creare progetti, proporre idee e realizzarle. Eppure, manca qualcosa del genere…

Sono tanti i nodi che la crisi economica di questi ultimi anni ha portato al pettine e uno degli effetti più drammatici è stato un tasso di disoccupazione giovanile che non avevamo mai visto, lenito soltanto da offerte di lavoro precario e mal pagato. Resta vero che il tasso di occupazione dei laureati in ingegneria a tre anni dalla laurea supera il 95%. Ma non ci sono solo loro. Attendiamo gli effetti di medio termine del c.d. Jobs Act, prima di criticare frontalmente la politica. Certo che investire nei giovani esige progetti più generali, che – come dicevo – si facciano carico delle loro ansie in vista del futuro e con loro traccino dei percorsi che rendano almeno certi i traguardi che si vorrebbero realizzare. La voglia di impegnarsi in loro c’è ed è una grande risorsa non sufficientemente sfruttata.

Sembra che i giovani mostrino una certa disaffezione nei suoi confronti, e una buona dose di scetticismo. Perché?

Perché la sentono lontana, sintonizzata su lunghezze d’onda che non sono le loro. Non basta avere dei men che quarantenni in un governo per trovare una tale sintonizzazione. Dipende anche da cosa si fa e da come lo si fa. È un fatto che oggi le generazioni giovanili risultano più attratte dalla c.d. anti-politica.

Si osserva spesso la presenza di persone “inadeguate” per certe cariche politiche. È frequente constatare che attraenti ragazze e/o ragazzi del mondo dello spettacolo, a seconda dei gusti, cambi per così dire di “palcoscenico” improvvisandosi donna/uomo politico e aprendo la strada ad una carriera politica. Da un estremo, quello del disinteresse, si passa ad un altro estremo. Come si spiega questo ingresso di giovani incompetenti in politica?

Non generalizzerei il fenomeno del passaggio dal palcoscenico dello spettacolo a quello della politica. Più interessante e diffuso è il fenomeno dell’ingresso di giovani tanto appassionati quanto incompetenti, portati alla politica dall’ostilità verso la casta e dal principio secondo cui è meglio essere rappresentati da “uno come noi”, che non da uno dei “loro”. E quando questi fenomeni accadono, accadono con brutalità, per cui è parte della casta ed è quindi nemico chiunque abbia un curriculum, comunque conquistato. Anche uno come me, ad esempio.

Si dice spesso che la politica non è solo un’“arte del vivere” ma che è anche un’“arte del saper vivere”. Questo vuol dire che essa dovrebbe dare degli orientamenti per la vita individuale e pubblica, offrire dei punti di riferimento per i nostri comportamenti, quindi dei modelli esemplari per i giovani. Cosa diventa una politica che non si regge su valori e idee capaci di orientare, o che viene meno a questa vocazione?

Sono partito qui io stesso dalla definizione della politica come un’arte. Ma le arti esigono una vocazione e quella di occuparsi degli altri è una specialissima vocazione, fatta di spirito di servizio, comprovata da una vita privata in cui nessun arricchimento si colga che possa essere dovuto all’esercizio di funzioni pubbliche, testimoniata perciò da onestà e dedizione. E mai, mai disposta a far prevalere il favoritismo sul merito e la competenza, cosa questa che per i giovani, e per la loro stessa educazione, è assolutamente essenziale.

Allora, come si dovrebbe fare politica? I giovani, in particolare, cosa dovrebbero progettare e attuare?

Progettare non soltanto softwares, ma anche rapporti umani in funzione di obiettivi comuni. L’Italia è uno splendido laboratorio per perseguire obiettivi comuni di risanamento territoriale, di valorizzazione storico-culturale, di tutela ambientale, di attenzione alla salute e al benessere dei più deboli, di crescita e coesione della società multietnica. Diano il segno di ciò che per loro da’ senso e concretezza al bene comune. E lo impongano all’attenzione di quelli che decidono, sino a diventare loro stessi quelli che decidono.

Ci sono comunque delle derive populiste e demagogiche che si dovrebbero evitare…

Certo, i giovani sono attratti soprattutto dall’ostilità populista per la casta e qui, in nome del merito e della competenza che tanto hanno a cuore, rischiano di leggere come privilegio inammissibile la crescita di lungo la scala sociale, a prescindere dalle ragioni e dalle circostanze che l’hanno consentita e vedendovi sempre lo zampino dei favoritismi. In tempi in cui l’ascensore sociale si è fermato è comprensibile che chiunque sia salito sia visto come nemico. Ma ciò a cui si deve aspirare è che l’ascensore riprenda a funzionare e che porti su soltanto chi ha merito e competenza. L’eguaglianza di tutti sul gradino più basso fu perseguita nell’orribile Cina della banda dei quattro. Non rendiamola un nostro obiettivo.

Educare a pensare crea, secondo il teologo italiano Vito Mancuso, un duplice movimento, rispettivamente di relazione con la società e di relazione con se stessi. A suo avviso, quanto la politica dovrebbe riscoprire questa formazione del pensiero?

Quanto scrive Mancuso è assolutamente vero ed è del resto una naturale conseguenza della nostra ineludibile natura relazionale. Provatevi a riflettere sul pensiero, su qualunque vostro pensiero, e vi accorgerete che esso mette comunque in gioco voi e gli altri. Il punto cruciale è il rapporto fra voi e gli altri. Se è il pensiero che deve approfondire la comprensione della realtà che vi circonda, ed anche di voi stessi, allora degli altri avete bisogno come partecipi della vostra stessa riflessione, compagni di avventura nella ricerca del logo. Se è il pensiero che vi serve per cavalcare gli altri ed affermare voi stessi, allora vi troverete presto soli. E il vostro pensiero si sarà inaridito.

Nel 1863, un erudito e politico inglese, John Cornewall Lewis, compose un dialogo sul modello platonico-socratico, il Democraticus. Vi sosteneva che una democrazia non è possibile lì dove esiste la schiavitù. Oggi i giovani sono molte volte schiavi di sistemi che si reggono su un culto feticistico del denaro, non sono presi in considerazione ma “utilizzati”, senza diritto a un vero lavoro, dignitoso, ostacolati nella loro realizzazione umana e professionale. Stento a credere che delle società con un tasso del 40 o del 45 % di disoccupazione giovanile possano ancora definirsi “democratiche”. Cosa ne pensa?

Per dubitare del tasso di democrazia di una società che non da’ lavoro ai suoi giovani, non c’è bisogno di una similitudine così estrema ed ardita (lo schiavo era ben più disgraziato del più disgraziato dei disoccupati del nostro tempo, era un animale privo di diritti, che poteva essere legalmente torturato, stuprato, ucciso). È certo vero che il dio danaro corrode i valori democratici, perché non solo trasforma un mezzo in un fine, ma ne fa un fine tanto grande e onnivoro, da cancellare la dignità e l’eguaglianza, che della democrazia sono i valori fondanti. L’importante è sapere che l’antidoto solo in parte si trova nelle leggi. È in primo luogo nell’etica e quindi nell’educazione che conforma la coscienza di ciascuno.

Ha una speranza per il futuro dell’impegno politico dei giovani?

Assolutamente sì. Sono esposti a mille tentazioni sbagliate, ma anche ad un orizzonte informativo ed emotivo che mai le generazioni precedenti avevano posseduto. Vedono ogni giorno i blog dei fanatici, che celebrano l’ignoranza con la contumelia, e possono esserne attratti. Ma vedono anche il mondo, possono comunicare con ogni sua parte, capirne i problemi e farli propri. Solo i vecchi professionisti della politica possono pensare che, se non leggono i giornali, sono lontani dall’impegno politico. Non sarà la vecchia “mazzetta” a crearlo. Nel bene e nel male, è più facile che lo crei la rete. E siamo fiduciosi. A convivere con il bene e con il male e a scegliere fra i due gli uomini sono stati chiamati da quando vivono su questa terra. Non sempre hanno fatto la scelta giusta. Ma perché non dovrebbero farla i nostri giovani, specie se li aiuteremo a farla?

di Gabriele Palasciano