Il senso della vita ai tempi del coronavirus

di Leonardo Becchetti.

Il Coronavirus sta producendo in tutti, e ancor più negli eroi che sono in prima linea (medici, personale sanitario) stress, angoscia e preoccupazione, paura per il nostro lavoro e le nostre vite, per quelle dei nostri cari e dei nostri concittadini. E sta imponendo un limite alle nostre libertà e capacità di movimento che la nostra generazione che non ha vissuto la guerra non aveva mai sperimentato prima. In mezzo a questo disastro, se non siamo distratti e facciamo bene attenzione, c’è anche qualcos’altro.

Prima dello scoppio dell’epidemia del Coronavirus la frontiera della ricerca sui temi della soddisfazione e ricchezza di senso di vita, alimentata da risultati costruiti su milioni di osservazioni in tutto il mondo, sottolineava che dietro i tanti fattori a cui solitamente guardiamo (reddito, salute, istruzione, libertà d’iniziativa, qualità della vita di relazioni) esisteva una componente principale capace di catturare gran parte di ciò che può renderci felici. L’abbiamo chiamata, assieme a tanti studiosi del fenomeno (Erik Erikson, Mauro Magatti tra gli altri) GENERATIVITÀ. In sintesi, al netto di tante cose che sono solo rumore di fondo, siamo felici nella misura in cui la nostra vita può rendere felici altre persone.

Le due citazioni più belle che conosco in tema di generatività sono quelle di Antonio Genovesi:
Fatigate per il vostro interesse, niuno uomo potrebbe operare altrimenti, che per la sua felicità sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria, e se potete e quando potete studiatevi di far gli altri felici. Quanto più si opera per interesse, tanto più, purchè non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri” (Genovesi, Autobiografia e lettere, p. 449);
e di John Stuart Mill:
Sono felici solamente quelli che si pongono obiettivi diversi dalla loro felicità personale: cioè la felicità degli altri, il progresso dell’umanità, perfino qualche arte, o occupazione perseguiti non come mezzi, ma come fini ideali in se stessi. Aspirando in tal modo a qualche altra cosa, trovano la felicità lungo la strada” (John Stuart Mill).

Parafrasando, possiamo avere reddito, salute, istruzione e vivere nel più “civile” dei paesi possibili ma se non ci alziamo dal divano e non ci mettiamo in gioco rendendo la nostra vita generativa non possiamo essere felici. Una precisazione. Non dobbiamo confondere la generatività con un attivismo frenetico e disordinato. Essere generativi vuol dire anche saper ricevere (dagli altri, dalla natura, dal Dio in cui crediamo se ci crediamo) ovvero capire fino in fondo cosa vuol dire una relazione che è un flusso di dare/avere, è scambio.

A questo punto la domanda. È possibile essere felici perché generativi in tempi di coronavirus? Se non ci lasciamo sopraffare dal flusso ansiogeno della cronaca della comunicazione a getto continuo sui media e dai sentimenti di angoscia e di paura che ci arrivano da dentro possiamo scoprire cose interessanti. Ad esempio quante cose possiamo fare anche nella nostra “clausura” moderna e forzata. L’universo della rete ci consente di entrare in contatto (voce e volto) con l’universo mondo organizzando riunioni di lavoro, ricerca, lezioni di scuola e universitarie, incontri di condivisione, momenti di preghiera. Ma c’è di più, in momenti topici della nostra vita, belli o brutti, il tempo da cronos (scorrere monotono e sempre uguale) diventa kairos (opportunità) e cresce di intensità e ricchezza. Riflettiamo di più, soffriamo ed amiamo di più, contempliamo di più.

Le relazioni, direbbe Rosensweig sono “fuochi che ardono sui ceppi del vissuto”. Adam Smith in modo non dissimile sottolinea nella “Teoria dei sentimenti morali” che la qualità delle relazioni dipende dal “fellow feeling”, ovvero dal comune sentire che si cementa in esperienze forti vissute insieme. Non necessariamente positive, anche negative. Si dice spesso che gli italiani danno il meglio di loro in momenti di difficoltà o di pressione, dal calcio alle tragedie nazionali…. non credo capiti mai in tempi ordinari in cui il “rumore di fondo” è forte e siamo tutti assorti nelle nostre cose avere un “fellow feeling” nazionale così intenso che ci fa sentire uniti con i vicini di balcone che cantano l’inno di Mameli o Azzurro.

La generatività e la capacità di contemplazione sono certo aiutati dall’essere immersi in bei paesaggi ma non dipendono dal numero di mezzi di trasporto che prendiamo in un certo periodo di tempo. Lo sapevano per primi i monaci che da sempre conoscono i segreti della felicità dentro le stesse quattro mura.
Le tragedie, come questa, sono tragedie certo, ma hanno anche la capacità di rompere la routinarietà dei tempi ordinari, abbassare al minimo il rumore di fondo, farci concentrare sulle questioni essenziali della nostra vita e creare uno spirito di gruppo e di corpo che non pensavamo di avere.

Per trovare il segreto della felicità dobbiamo studiare l’atteggiamento degli atleti paralimpici. Le nostre vite, per un motivo o per l’altro, sono fatte di vincoli, limiti, che crescono al crescere dell’età. La felicità sta nel non piangersi addosso interrogandosi sul perché le regole del gioco sono quelle (e non trovando la risposta). Ma sta piuttosto nel trasformare i vincoli in opportunità, in punti d’appoggio da cui sollevare il mondo. E questa tragedia, assieme alla tragedia porta con se una miniera di opportunità se solo sappiamo scoprirle e coglierle.

Buona clausura, sperando di celebrare presto un altro grande momento di felicità che sarà bello come la vittoria di un mondiale di calcio, la fine dell’epidemia. Ma subito dopo non affrettiamoci a gettare ricordi ed esperienze alle ortiche perché questa storia, come per i nostri nonni ai tempi della guerra, può veramente insegnarci molto e segnare, anche in termini di positività e saggezza, il futuro della nostra vita.

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