Il Genocidio dei Rohingya in Myanmar

In Myanmar si sta consumando uno dei più cruenti e spaventosi genocidi dei tempi recenti. La minoranza musulmana dei Rohingya, che abita la regione del Rakhine (nel Nord-Ovest del Paese), subisce discriminazioni da decenni, ma dal 2017 sono in atto violente politiche di apartheid e di pulizia etnica.

La Birmania è un paese tristemente noto per la povertà, l’instabilità politica e i regimi autoritari. Il Paese era una colonia del Regno Unito che ha raggiunto l’indipendenza nel 1948 e mostrando però da subito una profonda instabilità. Non a caso, già nel 1962 un primo colpo di stato porta al potere una giunta militare che mantiene il controllo per quasi mezzo secolo.

In questo contesto i Rohingya rappresentano una popolazione aliena all’interno di uno stato che non li riconosce nemmeno come cittadini. Infatti, la legge sulla cittadinanza del 1982 non include questa minoranza musulmana tra gli oltre 130 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti. Lo status dei Rohingya all’interno del Myanmar era e rimane quello di immigrati illegali, che li rende a tutti gli effetti un “popolo senza stato”. Nel 2021, a genocidio già in corso, un nuovo colpo di stato ha portato all’insediamento di un’altra giunta militare, responsabile delle atrocità perpetrate negli anni nei confronti della minoranza islamica.

Nel 2012, la questione dei Rohingya è finita sotto i riflettori internazionali a causa di un’ondata di scontri e violenze contro la minoranza etnica. Queste violenze sono esplose a causa dello stupro e dell’uccisione di una donna buddista per mano di un musulmano. Nel 2017, in seguito ad alcuni attacchi ai check point dell’esercito birmano da parte di milizie Rohingya, è iniziata la politica di vera e propria pulizia etnica con stragi, violenze sessuali, incendi sistematici e pesanti limitazioni alla libertà.

Oltre alle violenze fisiche, i Rohingya sono sottoposti ad arresti arbitrari, confische dei beni, tassazione discriminante e per spostarsi, anche per lavoro o per cure mediche, hanno bisogno di permessi speciali. Organizzazioni non governative come Amnesty International e Human Rights Watch parlano di genocidio e di un sistema di apartheid. Anche il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite nel 2021 ha condannato quello che succede in Myanmar con una risoluzione.

Nel 2017, ad un solo mese dall’inizio delle persecuzioni sistematiche sono morti 6.700 Rohingya. In una tale situazione più di 730.000 appartenenti a quest’etnia sono fuggiti per vivere in campi profughi nel vicino Bangladesh, mentre 600.000 di essi sono rimasti in Birmania. In un’intervista del 2022 a Human Rights Watch, Abdul Halim, un rifugiato di 30 anni in Bangladesh, ha dichiarato: «Le autorità del Myanmar ci hanno brutalizzato. Hanno dato fuoco alle nostre case, violentato le nostre madri e sorelle, briciato i nostri figli. Fin da quando eravamo bambini non abbiamo mai avuto nessuna libertà. Ci insultavano per dire che siamo come animali».

Questa tragedia prosegue ormai da cinque anni, nell’indifferenza quasi generalizzata della comunità internazionale.

A rompere questo silenzio si è alzata però la voce del Santo Padre, che già nel 2017 ha dichiarato: «È poco quello che possiamo fare perché la vostra tragedia è molto dura e grande, ma vi diamo spazio nel cuore. A nome di tutti quelli che vi hanno perseguitato, che vi hanno fatto del male, chiedo perdono. Mi appello al vostro cuore grande perché sia capace di accordarci il perdono che chiediamo». Inoltre, Papa Francesco ha aggiunto: «Continuiamo a stare vicino a loro perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo il cuore, non guardiamo da un’altra parte. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya».