01 Mar Il cambio epocale nel rapporto tra mafia e religione
«La nostra fede esige una chiara riprovazione della cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità della persona e della convivenza civile». Queste sono le famose parole che San Giovanni Paolo II pronunciò il 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi ad Agrigento e che hanno rappresentato una novità epocale di fortissimo impatto culturale, civile e umano oltre che religioso. Infatti, nessun Papa prima di allora aveva parlato di mafie in un suo discorso o in una sua omelia.
Da sempre la mafia si è appropriata di simboli e ritualità legati alla religione. Da sempre nella storia, la mafia non si è fatta scrupoli ad inserirsi in ambienti cattolici e in società fondate sull’etica cristiana. Sono cattoliche le quattro regioni meridionali italiane in cui sono nate e cresciute alcune delle organizzazioni criminali più potenti del mondo: Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. La religione cattolica non è mai stata vista in questi territori come un ostacolo alla diffusione del potere mafioso. Sono anzi tantissimi i mafiosi che si sono sempre professati credenti e che pensano di avere un rapporto speciale con Dio, manifestato attraverso una vera e propria ritualità criminale, con false devozioni e preghiere ipocrite. Come ha ricordato il magistrato Prestipino si arriva al paradosso quando: «un killer di Cosa nostra, ogni volta che gli ordinavano di commettere un omicidio, prima si recava in Chiesa e pregava Santa Rosalia perché lo proteggesse e perché l’azione andasse a buon fine e, dopo averla commessa, tornava dalla Santa per ringraziarla del buon esito dell’azione».
Nonostante le violazioni sistematiche dei comandamenti e dei precetti dell’etica cristiana i boss devoti rappresentano senza alcun dubbio la maggioranza. Al punto che Matteo Messina Denaro, l’ex superlatitante arrestato a Palermo il 16 gennaio scorso dopo trent’anni di ricerche, condannato in via definitiva per le stragi del ’92 e ’93 e che attualmente si trova nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, è considerato un boss anomalo essendosi dichiarato apertamente ateo. La maggior parte dei boss, dei latitanti, dei peggiori assassini crede in Dio, va a messa, osserva i precetti e chiede l’aiuto di Dio come faceva Bernardo Provenzano nei suoi pizzini.
Ma come si può trasformare la religione in un paradossale sostegno per giustificare l’illegalità, fino al delitto? I mafiosi ignorano quale sia la vera fede e dimenticano la frase che il profeta biblico Isaia fa pronunciare a Dio: «Non posso sopportare delitto e solennità» (1,13).
La Chiesa ha assunto un ruolo cardine nel dibattito contro le mafie nel condannare la gravità del fenomeno. Meritano di essere segnalati gli inequivocabili appelli e giudizi che la Chiesa ha moltiplicato in questi ultimi decenni, a partire dalla beatificazione, nel 2013, di Padre Giuseppe Puglisi, primo uomo di Chiesa in assoluto beatificato per aver combattuto la mafia restandone vittima. Papa Benedetto XVI aveva invece lanciato un monito ai giovani di Palermo il 3 ottobre 2010: «non cedere alle suggestioni della mafia che è una strada di morte, incompatibile col Vangelo» e sempre nel 2010 la CEI, Conferenza episcopale Italiana, dichiarava: «Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato».
Anche Papa Francesco ha ribadito a Scampia il 21 marzo 2015 che: «la corruzione spuzza», evocando il tanfo della coscienza sporca.