15 Gen I vizi, “abito del male”
Fonte di peccato, di condanna morale, i vizi hanno da sempre suscitato l’interesse di molti. Nella filosofia Aristotele li qualifica «l’abito del male», nella letteratura Dante li usa come porte simboliche della «città dolente». D’altronde, in ogni epoca, i peccati capitali sono stati un mezzo per reinterpretare e classificare l’agire umano nelle sue derive negative.
Il sistema dei vizi capitali – definiti tali in quanto fondamento della degenerazione morale – deriva da una creazione monastica. Il primo ad elaborare una dottrina su tali peccati fu Evagrio Pontico, eremita nel deserto egiziano, seguito poi dal discepolo Giovanni Cassiano, prevedendone otto. Fu poi Gregorio Magno a mettere a punto il settenario – superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia – affermatosi soprattutto dopo il Concilio Lateranense IV, che impose a tutti i fedeli l’obbligo della confessione annuale e rese necessaria l’esigenza di una classificazione dei peccati e di una loro conoscenza più profonda.
Nel corso dei secoli diversi sono stati i tentativi di riclassificare i peccati per adeguarli ai tempi correnti. Non ultimo quello di Umberto Galimberti che, nel cercare di variare la denominazione o di introdurre nuovi vizi ai nostri giorni, ha proposto un altro settenario da integrare e attualizzare rispetto a quello classico: consumismo, conformismo, spudoratezza, sessomania, sociopatia, rigetto/diniego, vuoto interiore. A differenza dei vizi capitali che segnalano una “deviazione” della personalità, i nuovi secondo il filosofo ne rappresentano il “dissolvimento”, che non investe il singolo ma piuttosto la collettività. Pertanto l’individuo non può opporre una resistenza individuale, altrimenti la pena sarebbe l’esclusione sociale.
In questi giorni a parlarne è stato proprio Papa Francesco che, nell’ultima udienza del 2023, ha introdotto un nuovo ciclo di catechesi incentrato su “I vizi e le virtù” iniziando proprio dalla superbia e descrivendolo come «l’inizio di tutti i mali». Lo scorso 10 gennaio ha proseguito questo cammino incentrando la riflessione sul tema della gola, definendolo come «forse il vizio più pericoloso, che sta uccidendo il pianeta – perché se – il peccato di chi cede davanti ad una fetta di torta, tutto sommato non provoca grandi mali – invece – la voracità con cui ci siamo scatenati, da qualche secolo a questa parte, verso i beni del pianeta sta compromettendo il futuro di tutti».
A preoccupare nei nostri tempi però non è solo l’orizzonte del peccato, ma anche «l’indifferenza etica, l’afflosciarsi di ogni frontiera tra vizio e virtù, l’adozione di un relativismo utilitaristico ed edonistico, un’amoralità diffusa, nuova e più pericolosa forma dell’immoralità» come ha più volte ribadito il Cardinal Ravasi. Ha anche aggiunto che l’esercizio contrario da praticare è quello dell’apertura al mondo luminoso delle virtù, intese non solo come quelle cardinali e teologali che sono il parallelo antitetico del settenario dei vizi capitali, ma anche come qualità umana personale e sociale. Una dote da coltivare ed esercitare costantemente nella vita, perché non si acquisisce con un unico atto buono e giusto: «in realtà, alle spalle c’è una dura e severa “ascesi”, un allenamento quotidiano faticoso, com’è appunto l’essere fedeli e coerenti nell’adesione alla giustizia e alla verità», ha concluso il fondatore del Cortile dei Gentili.