I martiri dei diritti

A Baghdad, a Tahrir Square – Piazza della Liberazione – il volto di un ragazzo è ritratto in un imponente murales. È Safaa al-Saray, un attivista per i diritti umani e un’icona della rivolta irachena. Ma era anche un poeta, un musicista e un blogger, con un grande seguito sui social media. Era e non è, perché il 28 ottobre del 2019, mentre partecipava a una protesta pacifica, Safaa è stato colpito alla testa da una bombola di gas lacrimogeno lanciata dalla polizia. È morto 7 ore più tardi, in ospedale, per le ferite riportate. Prima di allora, era stato già arrestato tre volte e viveva costantemente sorvegliato e minacciato. Molto probabilmente a causa della sua denuncia contro la corruzione del governo iracheno, che portava avanti dal 2011 organizzando e partecipando a numerose proteste, durante le quali documentava e denunciava la repressione brutale delle forze dell’ordine.

Ma non si tratta dell’unica mosca bianca in difesa dei diritti e delle libertà.

Più recentemente, lo scorso 27 agosto a Istanbul, l’avvocatessa e attivista per i diritti umani Ebru Timtik è morta in un carcere dopo 238 giorni di sciopero della fame. Il suo corpo è diventato sempre più piccolo finché il suo cuore non ha più retto. Nei suoi ultimi giorni pesava appena 30 chili e poteva bere solo attraverso una piccola siringa. Era stata condannata insieme ad altri 17 colleghi a 13 anni e mezzo di carcere per “appartenenza a gruppo terroristico”, in particolar modo al gruppo leninista Dhkp-c – Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario – considerato il covo dei “brigatisti” turchi. Con loro, Timtik aveva difeso la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto in seguito alle ferite riportate durante le proteste di Gezi Park nel 2013.

Solo nel 2019 sono stati 304, tra uomini e donne, gli attivisti che sono stati uccisi per il loro impegno in difesa dei diritti umani. In 31 diversi paesi del mondo, come riporta il rapporto della ONG internazionale Front Line Defenders – un’organizzazione non-governativa con sede a Dublino che offre supporto pratico ai difensori dei diritti umani a rischio.

Le loro colpe sono tutte da ricercare nei loro principi e nella loro responsabilità verso la difesa di ciò in cui credono: la tutela dell’ambiente, dei diritti LGBTIQ, dei popoli indigeni, della libertà di espressione, per la loro opposizione a regimi autoritari e corrotti, o per aver partecipato a proteste pacifiche.

Secondo i dati raccolti dalla ONG, nell’85% dei casi i difensori avevano già ricevuto minacce prima di essere uccisi, il 13% delle vittime è costituito da donne, e il 40% difendeva diritti ambientali, della terra e dei popoli indigeni.

Ma gli omicidi sono solo l’ultima tessera di un domino malato. Prima dell’uccisione c’è sempre la criminalizzazione, la prigionia, la minaccia e l’aggressione. Ciò nonostante c’è chi ancora trova il coraggio di alzare la voce, tirare su la testa e di non nascondersi. Come Rebecca Kabugho, la più giovane prigioniera politica al mondo, che consapevolmente afferma: «nella lotta civile e non violenta ti possono arrestare, condannare, si può anche morire, ma questi non sono motivi per abbandonare; anzi, lottiamo proprio per una giustizia che funzioni e perché non ci siano più condanne ingiuste, lo facciamo per le generazioni future».

Attiva nei ranghi del movimento civile e non violento Lucha (Lutte pour le Changement – Lotta per il cambiamento), il suo impegno le ha reso la notorietà anche al di fuori del suo paese, il Congo. Tanto che nel 2017 ha ricevuto il premio internazionale Women of Courage grazie al quale ogni anno vengono premiate donne di tutto il mondo che hanno dimostrato coraggio, forza e leadership. Un riconoscimento che Rebecca ha usato solo per allargare i propri orizzonti e incontrare altre donne che lottano come lei per cause altrettanto valide.

Oggi Rebecca collabora con un artista congolese, Yves Mwabma, per portare in giro uno spettacolo teatrale che parla della lotta non violenta in Congo. La protesta continua seppur in forme diverse, ma mantiene lo stesso obiettivo: quello di «fare della Repubblica Democratica del Congo un paese nuovo nel quale la giustizia sociale e la dignità umana possano regnare, in cui i figli e le figlie del paese possano essere fiere di farne parte, un Congo che promuova la dignità delle sue comunità e che faccia emergere il paese al cuore dello sviluppo dell’Africa e del mondo».