Figlio di Dio e del popolo eletto

da Il Sole 24 Ore – 26 marzo 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi analizza il saggio di Ben-Chorin, in cui si evidenziano molteplici atti e parole di Cristo come medico e come maestro.

«Un ebreo marginale»: così provocatoriamente intitolò la sua ricerca sul Gesù storico uno dei maggiori biblisti americani, John P. Meier, morto lo scorso anno, i cui monumentali cinque volumi sono stati tradotti dalla Queriniana. Sì, perché è indiscutibile che Gesù fu un ebreo e una linea di investigazione esegetica denominata Third Quest («Terza ricerca»), dopo quella razionalistica dell’Ottocento e la cosiddetta Formgeschichte di stampo più teologico, si è dedicata alla ricostruzione della fisionomia ebraica del rabbì di Nazaret. I suoi piedi furono, infatti, ben piantati nel terreno religioso e culturale del giudaismo del I secolo, nonostante gli indubbi segnali di discontinuità e originalità della sua figura e del suo messaggio. Accanto al Gesù storico ebreo, c’è infatti anche un Gesù storico “cristiano”.

Le sue radici e i legami col giudaismo hanno così stimolato il confronto con la sua persona da parte del pensiero ebraico contemporaneo. La lista di questi interlocutori è lunga e parte già da Spinoza per approdare al secolo scorso con autori rilevanti come Joseph G. Klausner (1874-1958), Jules Isaac (1877-1963), André Chouraqui (1917-2007), Pinchas Lapide (1922-1997), Geza Vermes (1924-2013), Jacob Neusner (1932-2016), e persino un filosofo marxista come Ernst Bloch (1885-1977). Tra costoro brilla, per la sua simpatia e sintonia con Gesù, Schalom Ben-Chorin (1913-1999) il cui saggio Fratello Gesù, apparso in tedesco nel 1967, viene ora riproposto con la versione italiana di Giuseppe Scandiani, nella collana Il pellicano rosso della Morcelliana.

Merita un cenno la biografia di questo ebreo nato a Monaco, all’anagrafe Fritz Rosenthal, da una famiglia passata al cristianesimo, lasciando però insoddisfatto questo figlio, così affascinato dalla sua matrice giudaica da farsi adottare da una famiglia di ebrei ortodossi e da mutare il suo nome in Schalom Ben-Chorin, cioè «Pace-Figlio della Libertà». All’irrompere in scena di Hitler, egli decise col suo famoso maestro Martin Buber di trasferirsi nel 1935 a Gerusalemme, ove visse per il resto della sua esistenza inanellando però molte docenze universitarie anche nella Germania ormai libera dall’incubo nazista.

Come sottolinea nella sua prefazione Renzo Fabris che fu da noi un artefice dello stesso impegno, Ben-Chorin si dedicò alla promozione del dialogo ebraico-cristiano, data l’intima connessione tra le due fedi (non si dimentichi che nella liturgia cattolica domenicale la prima delle tre letture bibliche è prevalentemente desunta dall’Antico Testamento). Esse condividono, quindi, la stessa Rivelazione divina, la relativa storia della salvezza, l’attesa della pienezza escatologica del regno di Dio. Centrale in questo incrocio è la figura di Gesù, «fratello» ebreo per la sua matrice, come sopra si diceva. Senza esitazione Ben-Chorin scrive che «Gesù non è solo fratello in quanto uomo, ma anche fratello ebreo. Sento la sua mano fraterna che mi afferra perché lo segua. Non è la mano del messia, questa mano con i segni delle ferite. Senz’altro non è una mano divina, bensì una mano umana, sulle cui linee è scavato il più profondo dolore».

Chiara è, quindi, la consonanza ma anche la dissonanza e quindi la diversità di approccio, come egli affermerà con una battuta divenuta famosa: «La fede di Gesù ci unisce, ma la fede in Gesù ci divide». Nel suo saggio Ben-Chorin si consacra a ritessere i molteplici legami che parole e atti di Gesù, medico e maestro, rimandano alla tradizione ebraica. Anzi, come ribadisce lo stesso rabbì di Nazaret, destinatario privilegiato della sua missione è il popolo ebraico: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele… La salvezza viene dai Giudei… Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». E come confessa lo stesso autore, «sempre e sempre incontro Gesù, sempre e sempre dialoghiamo, avendo in comune l’origine ebraica e la speranza ebraica del regno di Dio».

Nella sua analisi dei Vangeli egli non teme di affrontare secondo la sua prospettiva la figura di Gesù, a partire dalla sua nascita considerata “illegittima” (a differenza di altri ebrei che non escludono l’azione dello Spirito Santo nelle nascite di personaggi straordinari). Ascolta i suoi discorsi e le sue parabole, segue le sue azioni miracolose, è convinto che come rabbì fosse sposato, cerca di penetrare nella sua anima quando sulla croce lancia l’appello a Dio muto e lontano («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»). Suggestiva è la libera interpretazione del gesto della donna che cosparge di profumo di nardo i piedi di Gesù e li asciuga coi suoi capelli (Giovanni 12,3): secondo Ben-Chorin, si avrebbe non tanto un rimando alla futura sepoltura di Cristo, bensì alla sua elezione a «nuovo Abramo», padre nella fede. Questa lettura viene giustificata sulla base di un commento giudaico al libro della Genesi ove il patriarca biblico viene comparato a una fiala di profumo prezioso che viene aperta perché espanda la sua fragranza aromatica su tutta la terra e sui popoli.

Infine, più fondata è la reinterpretazione dell’ultima cena eucaristica di Gesù, ripresa nella sua dimensione di comunione tra cristiani ed ebrei: «Quando io nel banchetto pasquale giudaico sollevo il calice e spezzo il pane azzimo, faccio quello che Gesù ha fatto e so di essergli più vicino di qualche cristiano che celebra il mistero dell’eucaristia in modo del tutto staccato dalla sua origine ebraica».

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