La violenza della chiacchiera…

Il chiacchierìo. Parliamone, finalmente. E’ il titolo di un libro scritto da Florence Ehnuel, professoressa di filosofia in un liceo vicino Bordeaux, volto a sfatare l’immagine della classe silenziosa spesso presente nei film francesi sulla scuola (da Quattrocento colpi di Truffaut a La classe di Cantet): “quando i miei allievi si annoiano, chiacchierano; quando sono interessati e coinvolti, chiacchierano. Il risultato è che chiacchierano sempre, in ogni momento, e non sono più in grado di distinguere tra pensare e parlare”. “Un’indisciplina di bassa intensità, costante, banalizzata”, collegata dall’autrice alla necessità di soddisfare immediatamente e di appagare istantaneamente quello che è un simulacro del desiderio e che impedisce qualsiasi forma di riflessione e pensiero: “una specie di indigestione che occupa la mente e rende anoressici rispetto al sapere”. Il connazionale Pennac, nel suo Diario di scuola, descrive in modo analogo il “bambino cliente”, quello studente con in testa “un mercato delle pulci nel quale trovi tutto e il contrario di tutto”, “la preda ideale di una società che riesce in questa prodezza: creare giovani obesi disincarnandoli”.

Perciò anche uno studioso notoriamente di sinistra come Luciano Canfora ricorda questo pensiero di Gramsci: “la disciplina è un elemento necessario di ordine democratico”, poiché “non annulla la personalità, ma solo limita l’arbitrio e la impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere” (Quaderno 14,par.48). Infatti, quelli che Battiato chiama “pensieri rumorosi” possono in realtà condurre ad esiti estremamente negativi. Lo confessa lo stesso cantautore, spiegando come ad inizio carriera la sua musica elettronica fosse caratterizzata da “un suono distruttivo, esagerato, suicida” ed i suoi concerti terminassero sempre con “gesti di distruzione, rabbia, violenza”. Similmente, nel libro Il secolo del rumore, lo storico Pivato osserva come agli inizi del novecento “i futuristi fanno vedere il rumore. Le loro sculture, le loro pitture, i loro scritti sono ‘rumorosi’. Il fatto che poi il primo concerto sia finito in una rissa rientra nella logica della civiltà del rumore”. Nella logica di quella che Dorfles ribattezza, intitolando così un suo testo recente, La (in)civiltà del rumore. Un luogo ormai “saturo di messaggi”, “troppo pieno di suoni, colori, forme”, di “rumore mediatico”: “una forma di pornografia”. “Per questo” – ci esorta Daniele Silvestri – “il numero è importante, dà peso alle parole / per questo tu ogni volta prima pensale da sole / e se ci trovi il minimo indizio di violenza / ricorda che si eleverà all’ennesima potenza / la gente che grida parole violente / non vede, non sente, non pensa per niente / non mi devi giudicare male /anch’io ho tanta voglia di gridare / ma è del tuo coro che ho paura…” (Voglia di gridare).

 

 

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