«Ite, missa est!» tra inni e cantici

da Il Sole 24 Ore – 23 maggio 2021 – di Gianfranco Ravasi.

In questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi approfondisce l’accezione della parola “messa”.

La Messa è finita : è il saluto liturgico terminale della celebrazione eucaristica che anche i non credenti hanno nell’orecchio, forse per la ripresa che ne ha fatto Nanni Moretti nel titolo del suo film del 1985. Un’opera, per altro, suggestiva per la sua capacità di cogliere il fenomeno della crisi religiosa che percorre la società e, quindi, le coscienze di molti preti anche oggi, come era accaduto al suo don Giulio.

Sta di fatto, comunque, che ogni domenica le porte delle chiese si spalancano – anche in tempi di pandemia – per accogliere i fedeli, sempre meno numerosi e «distanziati», per la celebrazione della Messa, un vocabolo sul cui significato si sono accaniti da sempre gli studiosi. Ora ci riprova un docente emerito dell’università di Pisa, Mauro Braccini, un filologo di prestigio, attraverso un saggio di non agevole lettura, anche se pianificato in scansioni cronologiche e tematiche nette, a partire da un passo dell’Epistola XX che sant’Ambrogio indirizza alla sorella Marcellina, ove appare la frase evidentemissam facere coepi. Lo studioso procede, quindi, nello spoglio delle occorrenze del termine dal IV (il 385 della lettera santambrosiana) fino al VII secolo.

L’oscillazione degli interpreti si muove tra i due poli sia del missa come sostantivo, ed è ciò che appare nella formula del vescovo di Milano («cominciai a far messa»), presente anche nella tarda formula latina Ite, Missa est, sia come participio del verbo mittere, e sarebbe allora la preghiera/liturgia «inviata» a Dio, o l’assemblea «inviata» nel mondo per l’annuncio dell’evangelo, dopo aver partecipato alla celebrazione. Non possiamo ora delineare la complessa analisi testuale di Braccini, che certamente sorprenderà i ricercatori: curiosi, ad esempio, sono i capitoli in cui si vagliano gli usi profani del vocabolo, oppure quando si svela il transito del termine latino nel greco bizantino con le più diverse accezioni (operazioni di polizia, prassi militare, cerimoniale di corte).

L’autore punta a identificarne il significato radicale, inquadrandolo nella cornice primigenia dell’Editto costantiniano di Milano (313) che sanciva la libertà di culto anche per il cristianesimo. Si coinvolgono, così, tre attori, Cesare, Dio e la Chiesa in un atto liturgico, la Messa appunto, che, però, ha nelle sue radici proprio una missa, ossia la concessione ai cristiani da parte di Costantino e Licinio di praticare pubblicamente il culto. Per questo il vocabolo si era allargato a coprire non solo la Messa ma anche alcune sue parti e persino la liturgia delle Ore, ossia la varietà rituale cristiana. Alla base, però, c’era sempre quell’accezione originaria secondo la quale il sostantivo missa rimandava alla concessione della libertà.

Rimanendo sempre in campo liturgico, ma uscendo dall’acribia filologica per entrare nell’orizzonte più largo della riflessione spirituale, accostiamo uno studio molto essenziale ma suggestivo su un soggetto in passato messo raramente sotto la lente della teologia, eppure di capitale rilievo, la musica. Ad aprire questa strada – che non è meramente una recensione fenomenica dei temi religiosi nella musica, ma una «teologia» dell’atto musicale in sé considerato – sono stati vari pensatori ecclesiali contemporanei, a partire dal celebre teologo Hans Urs von Balthasar per passare anche a Joseph Ratzinger, Hans Küng, Anselm Grün, Don E. Saliers, ma soprattutto alla vasta e originale bibliografia di Pierangelo Sequeri.

Ora ci prova, con la sua competenza di musicista e musicologo, ma anche con la sensibilità di maestro di cappella e di docente, Sergio Militello. Proprio per questo il suo approccio teologico non si esaurisce nel perimetro pur alto e nobile della musica sacra e liturgica ma si allarga all’intera «prima arte del sentire umano», capace però del balzo verso la trascendenza del dialogo col divino. È, appunto, la dimensione simbolica della musica per cui – secondo la tradizione giudaica – le note del pentagramma sarebbero la scala dimenticata dagli angeli sulla terra, dopo averla usata per scendere dal patriarca biblico Giacobbe a comunicargli il messaggio di Dio (Genesi 28,10-22).

A questo punto, basta seguire il tracciato proposto da Militello che, pur partendo dai primordi stessi del linguaggio sonoro, punta a individuare il valore teologico della musica, considerandola nella sua straordinaria potenzialità simbolica un «luogo» ove il divino e l’umano si abbracciano in consonanza. Si ha, quindi, un’epifania dell’esperienza di fede, dello spirito e del cuore, dell’assemblea umana orante, ma anche una teofania della grazia, del mistero, della rivelazione divina.

Non poteva mancare un’applicazione concreta che, con la sua competenza ed esperienza, Militello affida al maestro supremo in questo discorso, ossia Johann Sebastian Bach, del quale viene proposto il mirabile Magnificat (BWV 243), in un’emozionante esegesi. Anche se abusata, diventa necessaria la citazione dell’agnostico Emil M. Cioran: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio. Dopo un suo oratorio, una cantata o una Passione, Dio deve esistere. E pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».