Destinati a buon «fine»

da “Il Sole 24 Ore” – 8 gennaio 2017 – di Gianfranco Ravasi.

«C’è una parolina piccola e insignificante, eppure così ricca di contenuto; quieta, eppure così commossa; serena, eppure così piena di nostalgia. È la parola infine». Così scriveva in uno dei suoi Discorsi edificanti, stesi tra il 1843 e il 1844, Soeren Kierkegaard ricordando che, se da un lato, questo avverbio contiene l’idea di una fine, d’altro lato, però si torce verso la proposta di un fine, cioè di una meta raggiunta. Ebbene, lasciato alle spalle il 2016 – “una fine” appunto – vorremmo affacciarci sul nuovo anno proponendo una riflessione cristiana sull’intreccio tra tempo ed eternità che è “il fine” e, quindi, il futuro dell’esperienza umana letta in chiave religiosa.

Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi (2007) notava la fatica concettuale che ci affligge quando cerchiamo di interrogarci sull’eternità perché essa «suscita in noi l’idea dell’interminabile e questo ci fa paura… Possiamo soltanto cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità» (n. 12). Proviamo, allora, a illustrare la connessione tra tempo ed eternità sulla base della concezione ebraico-cristiana, una visione religiosa intimamente fondata sulla “storicità”.

Secondo la Bibbia, infatti, Dio non rimane relegato nei cieli luminosi dell’infinito e dell’eterno, ma decide di incamminarsi per le strade polverose della storia umana e dello spazio terreno. Emblematica è la celebre frase che è incastonata in quel capolavoro teologico e letterario che è l’inno – per eccellenza natalizio – che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: ho Lógos sárx eghéneto, il Verbo, la Parola divina che era «in principio», che era «presso Dio», anziché era Dio, si intreccia intimamente con la sárx, cioè con la “carne”, la fragilità, il limite temporale e spaziale dell’umanità.

La storia, allora, per la Bibbia diventa la sede delle epifanie divine. Non per nulla il cosiddetto “Credo storico” di Israele è tutto ritmato non su definizioni astratte e “teologiche” di Dio ma sulle sue azioni sperimentabili nelle vicende del popolo ebraico: la chiamata dei Patriarchi, la liberazione nell’esodo dalla schiavitù faraonica, il dono della terra promessa (si leggano, ad esempio, il Salmo 136 o Giosuè 24). Come ha intuito Chagall nei suoi dipinti, si può incrociare Dio appena svoltato l’angolo della casa, all’interno del modesto villaggio ebraico; gli angeli entrano ed escono dai comignoli delle case e nell’amore di una coppia si intravedono i simbolismi celebrati dal Cantico dei cantici.

In questa luce tempo ed eterno si annodano tra loro, pur essendo così differenti tra loro. Certo, noi che guardiamo o viviamo nella prospettiva del tempo sentiamo ancora remota la pienezza dell’eternità. Non per nulla Paolo nella Lettera ai Romani (8,18-27) usa immagini di parto, di attesa, di tensione impaziente perché il nostro tempo è “pesante”, segnato dal male e scandito dal dolore e dalla morte. Gesù ricorrerà al simbolo del seme di senape che è piccolo e sepolto dalla terra e che deve vivere una lunga avventura prima di crescere in albero frondoso. Il Regno di Dio è già «in mezzo a noi», si dice nei Vangeli, ma Dio non è ancora «tutto in tutti», come proclama Paolo e non si è ancora raggiuntala promessa dell’Apocalisse secondo la quale «la morte non ci sarà più» (21,4).

Tuttavia, se ci poniamo dall’angolo di visuale di Dio, cioè nell’eternità, non si ha – come accade a noi che siamo nel tempo – un “prima” e un “dopo”. Tutto è contratto e condensato in un punto, in un istante, in un evento unico e compiuto. In esso c’è già la pienezza di quel seme, c’è la meta di quell’attesa, ci sono già la salvezza e il giudizio, la morte e la risurrezione, come dichiarava Gesù in quella notte a Nicodemo: «Chiunque crede nel Figlio dell’uomo ha già la vita eterna… Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già condannato» (Giovanni 3,15.18). E più avanti nello stesso quarto Vangelo si leggono queste altre parole di Cristo: «Chi ascolta la mia voce e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (5,24).

Con l’Incarnazione, dunque, si ha un’unione intima tra due realtà che sono antitetiche, il tempo e l’eterno. Già l’Antico Testamento, presentando una Rivelazione divina innervata nella storia e una religiosità che invitava a non decollare dall’orizzonte terreno verso cieli mitici e misticheggianti per incontrare Dio e la sua salvezza, aveva offerto la base tematica per la concezione cristiana e l’ingresso del Logos divino nel mondo. L’Incarnazione del Figlio di Dio è, quindi, coerente con l’annunzio dei profeti e dei sapienti di Israele e rende il tempo e lo spazio irradiati dall’eterno e dall’infinito. È questo anche il senso della risurrezione finale. Essa è una ri-creazione trasfigurata dell’essere creato, è l’introduzione della realtà naturale e umana in un orizzonte senza fine e senza limiti, in cui alla cadenza del tempo si sostituisce la “puntualità” dell’eternità.

Per riuscire a scoprire e a sentir pulsare questo abbraccio del tempo con l’eternità è necessario avere un canale di conoscenza ulteriore, cioè la visione della fede che sa perforare la pellicola esteriore del flusso temporale per cogliervi sotteso l’istante perfetto e supremo dell’eterno divino. È ciò che esprime in modo intenso e denso Thomas S. Eliot in alcuni versi dei suoi Quattro Quartetti: «Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno/ e il tempo è un’occupazione da santo/ non tanto un’occupazione, ma qualcosa che è donato,/ e ricevuto, in un morire d’amore durante una vita,/ nell’ardore, nell’abnegazione e nell’abbandono di sé».

A questo punto si riesce a comprendere come la Bibbia, pur conoscendo il chrónos come realtà cosmica contingente, computabile e verificabile, punti decisamente verso il kairós, un tempo personale ed esistenziale che può essere pervaso di eterno e quindi trasceso nella sua finitudine. Non per nulla Cristo nella sua prima “predica” dichiarava: peplérotai ho kairós, ossia il tempo umano è giunto a pienezza (Marco 1,15), ha in sé un pléroma, una “pienezza” di salvezza. Non è più semplicemente il «divoratore delle cose» (Ovidio), il «vorace cormorano» (Shakespeare), il «boia delle ore» (Gongora), il «sinistro iddio, impassibile, spaventoso» (Baudelaire). Diventa invece “storia della salvezza”, proprio quel “point of intersection” eliotiano sopra citato che intreccia storia ed escatologia.