Tutti a tavola anche le tradizioni

da Il Sole 24 Ore – 30 luglio 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi esplora il concetto di gastronomia religiosa attraverso il saggio «mangiare come Dio comanda» dei due antropologi Marino Niola ed Elisabetta Moro.

Sul numero del 12 novembre 1850 di una rivista letteraria tedesca, in un articolo in realtà più complesso, il filosofo Ludwig Feuerbach scriveva quella frase divenuta un po’ sbrigativamente una sorta di vessillo materialistico Der Mensch ist was er isst, «l’uomo è ciò che mangia». Formula fortunata anche perché nell’originale tedesco «è», ist, e «mangia», isst, sono assonanti, frase che custodisce una verità che va oltre la fisiologia ed entra nella metafisica, nella cultura e nella stessa spiritualità. Infatti, il cibo in tutte le religioni è un grande simbolo di comunione tra Dio e le persone e di quest’ultime tra di loro. Non è forse vero che nascite, nozze e anniversari sono celebrati con banchetti festosi? Solennità, ricevimenti, convegni sfociano in cene di gala, così come si consumano pranzi di lavoro, e in alcuni popoli persino il lutto è accompagnato da pasti funebri (in certe nostre regioni esiste il «consòlo»).

La secolarizzazione ha spesso spogliato il cibo da segni religiosi, sostituendovi la nuova liturgia dei masterchef. Tuttavia è indiscutibile che è rimasto un aspetto simbolico persino nell’accorrere dei giovani nei fast food. Nelle chiese cattoliche ogni giorno o almeno ogni domenica si imbandisce una tavola con tovaglia, pane, vino e acqua per quel rito fondamentale che è l’eucaristia (o Messa), nel quale Cristo e il fedele sono in «comunione». Ebbene, sotto il titolo forse un po’ sbarazzino ma ben fondato Mangiare come Dio comanda, uno dei nostri più noti antropologi culturali, Marino Niola, in coppia con un’altra importante collega, Elisabetta Moro, entrambi dell’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, hanno approntato un suggestivo manuale di sacra gastronomia.

È difficile delinearne il contenuto perché esso deborda da ogni pagina con un’immensa rappresentazione di cibi, riti, tradizioni, pratiche, affidate a una narrazione che apre orizzonti spesso inattesi, capaci di catturare l’attenzione del lettore ignaro di tanta abbondanza. Quanto i due studiosi – che scavano in questo imponente giacimento cultural-spirituale – affermano per la ricca «tavola di Mosè», ossia per la sacralità culinaria ebraica, vale per ogni fede: la precettistica gastronomica «costituisce una forma di religiosità che non è fatta solo di incorporei misteri teologici e vertiginose altezze metafisiche, ma anche di comportamenti concreti, cerimonie casalinghe, gesti tramandati sempre alla stessa maniera, per non disperdere quella parte dell’identità collettiva che è intessuta di vita quotidiana».

In un certo senso universalità antropologica e identità religiosa s’intrecciano tra loro, ma anche generano ramificazioni impressionanti. Per questo il «racconto» di Moro e Niola – che per noi potrebbe partire dal frutto di un vegetale biblico archetipico inesistente nella tassonomia botanica, «l’albero della conoscenza del bene e del male» – muove i suoi passi dalla dieta mediterranea teologica (tra l’altro, «dieta» discende dal greco diaita, «forma di vita»). In essa non entrano sulla mensa solo il pane e il vino, ma si effonde anche l’olio, se è vero che «messia» (dall’ebraico mashiah) e Cristo (dal greco Christós) significano semplicemente «l’unto» con l’olio santo della consacrazione.

Poi, però si va oltre il cristianesimo onnivoro e l’ebraismo selettivo – che si distinguono nettamente sulla «purità» o meno dei regimi alimentari – e nella «cucina del mito» viene convocata una triade religiosa grandiosa e massiccia dai menu sacrali diversissimi, segnata anche da reticenze e astinenze ben più antiche e nobili della rigida pratica vegetariana. Ecco, così, «il dilemma indù» tra carne e reincarnazione. Rinunciare al cibo animale è per quei fedeli un atto catartico dell’anima; eppure la normativa gastronomica sacra indiana è vasta, al punto tale che il cuoco ideale è il brahmano, il sacerdote. Similmente l’islam, sulla scia della kashrût ebraica, stende una netta linea di demarcazione tra il cibo halal, ammesso, e quello haram, impuro: e non è solo il maiale, ma una lunga lista di altri animali, mentre più complicata è la questione del vino che non proviene solo dall’uva ma anche dai datteri, miele, grano e orzo.

Infine, la trilogia delle religioni reticenti sul cibo si chiude con la «trinità dell’astinenza», Buddha, il dio Jina (giainismo) e Gandhi. Questa astinenza sacrale dal cibo si intreccia, però, con la sua canonizzazione in tante altre religioni: pensiamo solo al digiuno cristiano, al Ramadan e a una sterminata raggiera di divieti. Tanto per esemplificare, come non evocare la clausola giudaica che assegna disco verde solo agli animali ruminanti e dotati di un’unghia bifida (mucca, vitello, ovini), ma vieta il maiale dall’unghia fessa che non è però ruminante e il cammello ruminante ma senza unghia bifida?

L’idioma dell’alimentazione sacra è, dunque, arduo da organizzare in grammatiche comuni nonostante certi esiti commerciali che abbracciano diverse religioni. Solo per offrire un dato presente nel saggio: oggi i cibi kosher, cioè puri per gli ebrei, occupano un elenco che sfiora i duecentomila e approdano sulle tavole dei goyîm, gli altri popoli. A questo punto dovremmo aprire un altro sconfinato capitolo: quello morale, col vizio capitale della gola, scendendo nel terzo cerchio infernale dantesco, ma anche rimandando all’impressionante scarto alimentare odierno e alla fame nel mondo. Insomma, non c’è solo il Pranzo di Babette, ma anche la Grande abbuffata di Ferreri.