Tutta la luce contenuta nell’umiltà

da Il Sole 24 Ore – 23 luglio 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone una riflessione sull’umiltà attraverso le parole del filosofo catalano Francesc Torralba Roselló.

Colpiva nel segno Mario Soldati quando nelle Lettere da Capri (1954) osservava che «l’umiltà è quella virtù che, quando la si ha, si crede di non averla». Essa è l’esatto antipodo del primo dei vizi capitali, la superbia, e quindi risulta ardua nella pratica perché è molto più facile allargare la coda del pavone, per usare una celebre immagine coniata da Ovidio nelle sue Metamorfosi. Lapidario e persino fulminante era stato Julien Green quando trascriveva l’evangelico «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato»: «Non potendo fare di noi degli umili, Dio fa di noi degli umiliati» (così nel suo Journal).

Una riflessione creativa su questa virtù è ora proposta da uno dei migliori filosofi spagnoli contemporanei, il catalano Francesc Torralba Roselló (1967), docente all’università Ramon Llull di Barcellona. La sua è un’operazione di risignificazione di questa virtù estraendola dal pantano semantico pietistico e assegnandole un rango antropologico elevato, nonostante etimologicamente essa sia ancorata all’humus, quindi al terriccio che calpestiamo. Eppure proprio questa base può fare da rimbalzo per ascendere verso l’alto perché, lungi dall’essere un’applicazione del complesso d’inferiorità, l’umiltà è il riconoscimento realistico del nostro limite, ma anche delle potenzialità che esso custodisce.

In questa traiettoria Torralba intraprende un percorso demitizzante che spoglia la virtù dalle equiparazioni all’inferiorità, alla sottomissione, all’imperfezione, alla pusillanimità. Ne apre, però, un altro luminoso affidato a una serie di tappe che possiamo solo elencare e che vengono descritte in modo nitido e persino attraente, liberando l’umiltà dalle meste vesti nelle quali è stata avvolta da una certa retorica moralista o spiritualeggiante. Essa è, certo, consapevolezza delle proprie frontiere, per cui «la persona umile non pontifica, ma si limita a narrare la propria esperienza» e lo fa non a capo curvo e penitenziale, ma pacato e sincero (l’esempio a cui il filosofo ricorre a più riprese è la potente figura mistica e letteraria di s. Teresa d’Avila).

Per questo l’umile non ignora l’umorismo liberatorio e catartico che fa ridere di sé stessi e che non è imbracciato come un’arma contundente nei confronti degli altri. Anzi, questa virtù ha come sorella la gratitudine, nella consapevolezza di aver ricevuto tanto, a differenza dell’accecamento del superbo, convinto di aver elaborato dal proprio io la ragnatela suprema di ogni merito. Il filosofo Jankélévitch segnalava, poi, che un’altra sorella minore dell’umiltà è la modestia, dal latino modus, «misura», che sboccia proprio dalla coscienza del limite e quindi non si imbanca e imbarca in avventure capaci di condurre a cadute clamorose (le famose «umiliazioni», che castigano l’umiltà pelosa, cioè ipocrita).

Jankélévitch è citato da Torralba con la sua opera Il perdono perché nella cerchia dei valori umili c’è la dinamica della riconciliazione, impossibile a chi è insediato nel recinto egocentrico dell’altezzosità superba. Corollario conseguente è la compassione e ancora una volta come centro di gravità di entrambe le virtù c’è la coscienza e l’esperienza della fragilità comune, per cui si entra in empatia con l’indigenza che rivela ogni creatura umana. Hemingway aggiungeva un altro legame di parentela: «Il segreto della saggezza, del potere e della conoscenza è l’umiltà». Il vero sapiente, infatti, sa di non sapere e questo lo carica del desiderio di ascendere ai sentieri d’altura della ricerca e dell’«audacia di domandare», nelle varie accezioni, non solo gnoseologiche che questo verbo comporta.

Il percorso disegnato da Torralba si inoltra lungo altre ramificazioni, come quella del distacco che è un antidoto all’insoddisfazione contemporanea, vanamente narcotizzata da «una sorta di neoedonismo ad alto voltaggio». Continua l’autore: «Il distacco non è evasione, né fuga dal mondo, né disprezzo per ciò che è terreno; è una presa di distanza, in senso spirituale, una pratica di ponderazione del valore reale che ogni cosa ha», a differenza dell’«arrogante che soccombe alla tentazione di credersi Dio e che tutto ciò che egli inizia durerà per sempre», costretto poi alla metamorfosi delle sue illusioni in delusioni. Il distacco è uno «slegarsi» da qualcosa a cui ci si aggrappa in modo forsennato. Chi si è liberato da questo nodo acquista una dote invidiabile, la serenità, oltre alla pazienza e al superamento dell’«idolatria della velocità».

Quando si è lasciato cadere il manto del possesso orgoglioso, il profumo inebriante del piacere e la zavorra delle cose, si fa strada nell’anima della persona umile non tanto quel vuoto che l’egoista sperimenta, bensì una lievità, una libertà, una pacificazione interiore. Certo, «distaccarsi dalle emozioni non significa censurarle, amputarle o vergognarsene, richiede un faticoso lavoro spirituale, un allenamento che coinvolge la totalità della nostra persona». L’esito, però, è proprio quella serenità a cui spesso vanamente si aspira. In questo orizzonte di quiete l’umiltà diventa «la condizione sine qua non per avvicinarsi al mistero di Dio, per indagare su quella Realtà che ci trascende, che si colloca al di là del tempo e dello spazio». Con s. Agostino possiamo, allora, concludere che l’umiltà è la mater virtutum o, con Cervantes, che essa è «la base e il fondamento di tutte le virtù: senza di essa, nessuna di queste lo è davvero».