Sulle tracce della sapienza di Salomone

da Il Sole 24 Ore – 4 dicembre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi analizza il commento che Sebastiano Pinto fa dello scritto attribuito al re d’Israele.

Riprendiamo tra le mani i 502 versetti di un curioso scritto deuterocanonico, cioè escluso dal Canone ebraico (seguito anche dalle Chiese protestanti), proprio perché composto in greco. Il titolo tradizionale è Sapienza di Salomone perché l’autore – come accade anche per altre opere bibliche (Qohelet o Cantico dei cantici) – indossa i paramenti simbolici del celebre sovrano ebraico, figlio di Davide e considerato come l’archetipo della sapienza biblica. Qualche tempo fa avevo introdotto su di esso nel nostro supplemento domenicale una sorta di sguardo dall’alto, in seguito a un testo panoramico che avevo dedicato a quest’opera per una collana di classici edita dal Mulino.

Ora, invece, siamo di fronte a un monumentale commento, finemente elaborato da un importante esegeta pugliese, Sebastiano Pinto, che da tempo si muove nell’orizzonte sapienziale, un genere letterario che risale nella sua genesi alle culture dell’antico Vicino Oriente, soprattutto a quella egiziana. Il suo approccio è quello codificato a livello esegetico e attinge al metodo storico-critico ma rivela anche una fine sensibilità letteraria e teologica. Sì, perché la Sapienza esige una certa finezza interpretativa perché sembra collocata su un crinale con le sue pagine spalancate verso due versanti. Da un lato, c’è la cultura ellenistica di Alessandria d’Egitto, probabile culla della sua nascita; d’altro canto, però, si sente il respiro della matrice giudaica dell’autore.

La duplicità si rivela in tanti altri campi, a partire dalla lingua greca ora raffinata, ora più corrente e fin inceppata con filigrane originali e qualche ammiccamento semantico ebraico. Lo stesso genere letterario oscilla lungo correnti che spaziano su più pendici di quell’ideale crinale (la tipologia protrettica, quella «midrashica» tipica del giudaismo, la comparazione antitetica classicheggiante, il taglio didascalico e quello epidittico-dimostrativo). In questa molteplicità si ramifica anche il messaggio con un’efflorescenza tematica che va dall’immortalità alla sapienza personificata, dall’apologetica alla dialettica giusti-empi elaborata ricorrendo a una rilettura dell’antica vicenda dell’esodo di Israele dall’oppressione faraonica, assunta in chiave parabolica.

La stessa complessità si ripercuote quando si tenta di isolare la struttura del libro certamente unitaria, ma così articolata nella sua architettura da tener sospeso lo studioso nella stesura di una mappa puntuale. Per non parlare poi dei destinatari, anche in questo caso raccolti sui due versanti: la comunità giudaica della Diaspora coi suoi problemi ideali e gestionali interni, oppure i pagani e un pubblico di frontiera. Infine, la Sapienza s’affaccia certamente sull’orizzonte biblico che la precede, sia profetico sia sapienziale; ma le sue probabili coordinate cronologiche sul limitare dell’era cristiana (40/30 a.C.) stimolano la ricerca anche per un’eventuale preparazione o impatto con la visione neotestamentaria.

A questo punto sta al lettore iniziare l’avventura di percorrere gli attuali 19 capitoli in cui l’opera biblica è articolata, sostando dove più verrà coinvolto. Tradizionalmente sono stati due i poli attorno ai quali s’è annodato il filo dell’attenzione, quello immortalistico, nella consapevolezza però di evitare di considerare quelle pagine (cc. 1-5) come un ricalco della riflessione platonica, e quello dedicato alla sapienza con la certezza che «chi si alza di buon mattino per cercarla non si affannerà e la troverà che vigila alla sua porta» (6,14). Sono ben 21 gli aggettivi che, a cascata, la definiscono (7,22-23), modulati sulla simbologia numerica (7×3), così come curiosi sono i contenuti persino «laici», ossia scientifico-filosofici, che la innervano (si legga 7,16-20).

Ma fermiamoci qui, non senza aver consigliato di non perdere le varie appendici che Pinto allega, a partire da una preziosa sequenza di temi teologici anche specifici (risurrezione, giudizio, idolatria, monoteismo, la tecnica, la politica, la femminilità assente e così via). A margine ci sembra significativo aggiungere una nota proprio su questa categoria che ha dato il titolo tradizionale al libro e che, come si è detto, ha creato un genere letterario specifico, quello sapienziale.

Ora, Roland Barthes nel suo discorso di ammissione all’Institut de France, proponeva il recupero della categoria classica sapientia che, nel suo tenore originario, rimandava al latino sàpere: esso, prima ancora di evocare il «sapere», supponeva l’«avere sapore». E continuava: «La sapientia è nessun potere, un po’ di sapere, un po’ di intelligenza e quanto più sapore possibile». Per questo confessava che «vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare». Questo esercizio lo si pratica solo se si possiede un gusto interiore, appunto un sapere/sapore. Forse una qualità come questa sarebbe necessaria soprattutto ai nostri giorni nei quali la comunicazione informatica ha devastato la conoscenza con le pseudo-verità, con la brutalità aggressiva, con lo stereotipo pubblicitario. Un antidoto potrebbe essere proprio quella «sapienza del cuore», cioè della coscienza, che Salomone, il sapiente per eccellenza, aveva chiesto a Dio agli esordi del suo regno: «Concedi al tuo servo un cuore che ascolti» (1Re 3,9).