Soavi canti dalla cetra di Davide

da Il Sole 24 Ore – 11 dicembre 2022 – di Gianfranco Ravasi

 

In questo articolo il Cardinal Ravasi indaga, attraverso il racconto di Ugo Volli, la figura di Davide, che ha ispirato molti percorsi artistici.

È una sorta di cattedrale innica, composta di 22 ottonari che assommano 1.064 parole. È un canto alfabetico alla Parola divina: ciascuno dei 176 versetti di quella composizione inizia con un termine che, in sequenza, ricopre l’intero alfabeto ebraico, scandito in ciascuno ottonario, il cui numero 22 corrisponde appunto alla serie delle lettere. Da questo imponente Salmo, il 119, Ugo Volli – che tanti nostri lettori conoscono come semiologo (notissimo il suo Manuale di semiotica) e critico teatrale – ha estratto il verso 54 con una resa affascinante: Musica sono per me le Tue leggi. Nell’originale si ha il plurale zemirôt che evoca gli inni cantati perché la radice sottesa (zmr) designa il fare musica, l’intonare canti, soprattutto festosi, come si ripete in altri passi biblici e come suggerisce l’ultimo degli amici di Giobbe, Elihu: «Dio ispira nella notte canti di gioia (zemirôt)» (35,10).

Ora, protagonista del racconto di Volli, tutto orchestrato sulla filigrana delle storie narrate dai libri biblici di Samuele e delle Cronache, è Davide, il celebre re di Giuda che è esaltato anche come il «soave autore di canti (zemirôt) di Israele», secondo quanto si annota in cornice al suo testamento (2Samuele 23,1). La tradizione artistica successiva non esiterà a mettergli in mano una cetra dalla quale avrebbe estratto le armonie dei Salmi, mentre Dante conierà per lui la lapidaria definizione di «sommo cantor del sommo duce», cioè Dio (Paradiso, XXV, 72).

In realtà gli esegeti nelle loro analisi storico-critiche gli hanno strappato dalle mani molte di quelle ideali partiture e dalle labbra varie composizioni salmiche, lasciandogli solo uno striminzito fascicolo di testi. Infatti il Salterio è storicamente il respiro orante e poetico di una comunità vissuta per secoli che si è, però, posta sotto il patronato di colui che nel frattempo era divenuto anche il generatore della dinastia messianica. Lo stesso fenomeno trasfigurativo del personaggio Davide è avvenuto attorno alla sua vicenda. Essa è certamente sontuosa, gloriosa e trionfale in molte pagine bibliche e tradizionali, tant’è vero che ha prodotto uno sterminato paratesto artistico, letterario, musicale e fin cinematografico. Eppure, al vaglio storiografico quella figura diventa fluida e tremolante.

Come riconosce Volli, non abbiamo documenti esterni su Davide, se non la stele di basalto nero venuta alla luce a Tell Dan (Israele) nel 1993, datata 842 a.C., con la menzione di Yoram e Achaz, due re definiti come discendenti della «casa di Davide». C’è, invece, quella specie di biografia narrativa, non del tutto apologetica come vedremo, che occupa pagine e pagine bibliche, secondo una sceneggiatura straordinaria, pronta quasi a essere trascritta per immagini filmiche o televisive. Si provi a seguire, ad esempio, la duplice mirabile sequenza narrativa dei cc. 11-12 e 13-19 del Secondo Libro di Samuele, dalla cui lettura non si può uscire indenni. Il primo quadro di questo dittico si apre in un pomeriggio assolato con la visione di una bellissima donna nuda al bagno su un terrazzo, capace di eccitare il torpore di Davide abbacinato da tanto splendore carnale.

Tutti conoscono il nome di questa donna sposata a un ufficiale del re, Betsabea, non solo per i pittori che non si sono lasciati sfuggire questa occasione figurativa, da Memling a Cranach, da Dürer a Rembrandt fino a Chagall, ma anche per le stesse riprese letterarie: citiamo solo il Betsabea dello scrittore svedese Torgny Lindgren (1938-2017) pubblicato nel 1984 e tradotto da Iperborea nel 1988. Ho avuto l’occasione a Stoccolma di incontrare questo importante autore, cattolico in un Paese luterano, e di sentire quanto amasse quella emozionante storia biblica. Essa, però, dà origine a una cascata di delitti destinati a smitizzare – come dicevamo – l’aureola che avvolgeva quel re di Giuda.

In un’ancor più cupa atmosfera a livello sensuale si apre la seconda tavola del dittico a cui accennavamo: è la relazione di uno stupro consumato nel torbido ambiente dell’harem di Davide. Esso sfocerà in un terribile colpo di Stato che ha per protagonista proprio un figlio del re, aspirante parricida, Assalonne, un altro nome noto a tutti che ha dato il titolo Assalonne, Assalonne! al famoso romanzo di William Faulkner del 1936, con la sua tenebrosa trama di delitti, incesti e violenze razziali. Ma Davide è anche molto altro, soprattutto per quel canto che sboccia persino dalla sua colpa di adultero e omicida: è il Miserere (Salmo 51), una mirabile supplica penitenziale che ha conquistato i musicisti per secoli.

Volli compie quel progetto che idealmente Borges riteneva il più alto, leggere («io sono orgoglioso non dei libri che ho scritto ma di quelli che ho letto») e ri-narrare i racconti sacri. Così, sullo spartito biblico egli intona la sua sacra lettura/esecuzione musicale, partendo dalle origini della storia di Davide, passando attraverso la sua vita partigiana con l’incubo del predecessore, il re Saul ormai psicopatico, e l’amicizia del figlio di costui Gionata, giù giù fino all’approdo finale della morte. Egli, accanto al testo biblico – che spesso intarsia il suo scritto – tiene aperte le pagine fiammeggianti della tradizione narrativa (il midrash) giudaica in un delizioso contrappunto che avvolge e coinvolge il lettore di una delle più potenti storie dell’umanità.

 

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