“Segni” a Palazzo Braschi

Tra le molte sfide che la società contemporanea si trova ad affrontare, quella dell’inclusività è senza dubbio una delle più rilevanti. Allargare davvero l’accesso ai diritti, tuttavia, non è pensabile senza prevedere una seria risoluzione della questione di genere. Le forme di prevaricazione e di violenza verso le donne, siano esse fisiche, verbali o ideologiche – ancora più subdole perché non condannate con decisione e spesso banalizzate – configurano ovunque nel mondo una gerarchia di genere ancora netta. Un campo di battaglia troppo grande per essere coperto, anche con l’ausilio della rete. Da dove partire allora? Dai giovani, dai pregiudizi di genere che fin da piccoli assimiliamo involontariamente, a contatto con la società.

Proprio da questa presa di coscienza nasce “Segni”, una mostra realizzata dal “Cortile dei Gentili” e dalla Consulta femminile del Pontificio della Cultura, in collaborazione con istituzioni (l’università LUMSA) e organizzazioni che operano attivamente sul territorio (come il centro antiviolenza Lilith di Latina), ospitata a Palazzo Braschi. Pensata per giovani, “testata” sui giovani, destinata ai giovani, la mostra racconta quattro storie di donne vittime di violenza, mediante tre linguaggi: dall’alto verso il basso quello fotografico (scatti di Simona Ghizzoni e Ilaria Magliocchetti Lombi), quello testuale-narrativo e quello scientifico di approfondimento. Tre livelli di conoscenza capaci di stimolare l’eterogeneità del visitatore in tutte le sue parti. Non servono, dunque, precomprensioni, non serve documentazione, dal momento che per affrontare un problema trasversale c’è bisogno di uno strumento parimenti trasversale.

L’aggressione fisica, sembra urlare la mostra, non è che il punto finale (e, fortunatamente, non sempre raggiunto) di una spirale di violenza molto estesa che si consuma nel quotidiano, mediante una graduale privazione delle libertà (di movimento, economica, relazionale) della donna, il controllo sistematico degli spazi domestici, la costruzione di un rapporto di dipendenza unilaterale. Ciò che sorprende di più è l’incoscienza della violenza: probabilmente la maggior parte degli uomini che assume comportamenti di questo tipo non li classifica come violenti, proprio perché i modelli imperanti di mascolinità e femminilità impongono la gerarchia di genere. Una violenza invisibile, dunque, che anche le donne fanno fatica a rivelare fino a livelli insopportabili di gravità, restituita dalle fotografe anche mediante oggetti del quotidiano: chiavi di casa, telefoni, piatti.

Proprio perché la mostra è pensata per giovani ed è adatta davvero a tutte le età, ci sentiamo di raccomandare caldamente, come Consulta giovanile del Pontificio Consiglio della Cultura, di portare anche i più piccoli a visitarla. L’impatto emotivo che ne deriverà creerà, ci auguriamo, un argine importante contro il modello maschilista ancora imperante.

Andrea Raffaele Aquino