Quando la poesia si fa preghiera

da Il Sole 24 Ore – 10 settembre 2023 – di Gianfranco Ravasi

In questo articolo il Cardinal Ravasi propone una guida alla letteratura che nel corso del tempo ha trattato il tema del sacro.

«Ritaglia la mano orante dall’aria / con la forbice degli occhi, / mozza le sue dita col tuo bacio, / fanno restare senza fiato, oggi, / le mani giunte». È la voce striata di sangue di Paul Celan a disegnare quelle «mani giunte» in preghiera, mentre Ludwig Wittgenstein nei suoi appunti del 1914-16 coniava una sorprendente definizione: «Pregare è pensare al senso della vita». Quasi un secolo prima un altro filosofo, Søren Kierkegaard, era ancor più radicale: «Giustamente gli antichi dicevano che pregare è respirare. Si vede quanto sia sciocco parlare di un “perché”. Perché io respiro? Perché altrimenti morrei. Così con la preghiera».

C’è, però, un’altra analogia che merita di essere considerata: è la sororità tra la grande poesia e l’orazione autentica. L’homo sapiens è anche un homo quaerens, che si affaccia oltre lo stesso linguaggio verso un Altro che lo trascende, come segnalava già George Steiner nelle sue Grammatiche della creazione. A documentare questo intreccio si è dedicata Erminia Ardissino dell’Università di Torino, da sempre attenta al nesso tra sacro e letteratura, e lo ha fatto attraverso una vera e propria guida che coniuga la sincronia tematica con la diacronia storica. Ne deriva un testo veramente affascinante che trasferisce il lettore verso orizzonti inattesi, meritevoli del detto del mistico spagnolo cinquecentesco Fray Luis de León: «se descubren nuevos mares cuanto mas se navega».

La sequenza storica ovviamente non può partire che da Francesco d’Assisi col suo Cantico supremo, «preghiera tutta iridata di poesia» secondo Giovanni Getto, ma anche autore di un molteplice dispiegarsi di invocazioni latine e volgari. In consonanza si sviluppa la lauda medievale «multimediale» nella capacità di fondere modelli colti e popolari, lasciando risuonare l’emozionante laudario di Iacopone da Todi, dalla potente carica mistica («Amor, devino Amore, / Amor che non èi amato!»). Come ignorare Dante la cui Divina Commedia è un «book of prayers», per usare una definizione di un saggio inglese di Giuseppe Mazzotta? Il pensiero corre all’uso dei Salmi, in particolare il Miserere, alla celebre parafrasi del «Padre Nostro» nel canto XI del Purgatorio – una preghiera incessantemente ripresa e riletta nella letteratura successiva (suggestiva la resa di Tommaso Campanella) – fino alle laudi paradisiache.

A Dante subentra Petrarca che è incastonato nella memoria di molti con la dolce canzone alla «Vergine bella di sol vestita, coronata di stelle», ma che ci ha lasciato anche sette salmi penitenziali, rimando evidente a un genere orante tipico del Salterio biblico, amato e diffuso anche nell’epoca rinascimentale. A sorpresa Ardissino fa varcare al lettore la soglia dei monasteri femminili, soprattutto tra le clarisse, facendogli ascoltare voci di oranti ignote, ma presentandogli anche le Rime spirituali di una poetessa di alto profilo come Vittoria Colonna. Imponente è anche la successiva trilogia col Tasso delle Rime sacre, il citato Campanella pervaso da «inquietanti interrogativi sul valore e il senso stesso del pregare» e, infine, il barocco Marino con la sua «pietà scenografica».

È l’epoca in cui irrompe la musica con l’oratorio, e il Metastasio ci dona versi un tempo patrimonio persino della mnemonica didattica («Dovunque il guardo giro, / immenso Dio, / ti vedo, nell’opre tue ammiro, / ti riconosco in me…»). E chi non sa intonare il Tu scendi dalle stelle di s. Alfonso Maria de’ Liguori e forse anche il «Gesù mio, con dure funi come reo chi ti legò»? Ad attendere il lettore è, subito dopo, Manzoni coi suoi Inni sacri d’impianto teologico-apologetico, ma ci sono anche i sorprendenti e provocatori versi di Porta e Belli, capace quest’ultimo di accordare «la satira più irrispettosa con la devozione più ferma».

Siamo, così, giunti al Novecento: è, questa, una sezione che rivela la multiforme sensibilità e l’acutezza critica dell’autrice. È un polittico di grande fascino anche per le sue policromie molto variegate. Ecco, infatti, Ungaretti il cui «desiderio di infinito sta alla base di tutta la sua poesia». Basta solo citare questo tristico: «Chiuso fra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?». Non ci si immagina poi di incontrare il quadro riservato a Giovanni Giudici e alle sue «preghiere della vita», percorse da un anelito spirituale, nelle quali «poesia e preghiera rivelano l’esistente e al precario danno esistenza».

È, questo, il ribaltamento tematico dell’ulteriore attore convocato in scena, l’«ateologo» Giorgio Caproni, come egli amava definirsi; un poeta che inquieta i teologi e che sarebbe stato da cooptare come interlocutore necessario nel nostro «Cortile dei Gentili» per il dialogo tra credenti e non, consapevoli della potenza del suo grido paradossalmente pacato: «Dio di volontà, / Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati), a furia di insistere / – almeno – di esistere». Il polittico compiuto dall’Ardissino si conclude con una poetessa a cui personalmente fui legato da amicizia profonda e da un dialogo incessante, Alda Merini. Le pagine a lei consacrate sono illuminanti, capaci di svelare l’immensità di quell’anima e di quella mente tormentata e spesso travolta da bufere, ma la cui poesia «trascorreva tra le dita come un rosario».